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sabato 14 maggio 2011

Domenica 15 maggio - IV di Pasqua (A)


Domenica 15 Maggio > (Bianco)
IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO A)
 
LETTURE: At 2,14.36-41   Sal 22   1Pt 2,20b-25   Gv 10,1-10: Io sono la porta delle pecore.

Omelia sul Vangelo 
di padre Mimmo Castiglione 

La differenza!

E noi si segue chi ci conosce, e lo si riconosce,
delizia dell'ascolto della voce. Gaudio!
Comunione. Relazione intima. Come nella tenda!
Dopo aver attraversato deserto, arsura,
quanto grande il bisogno di fermarsi,
il desiderio d'essere al sicuro,
con chi ha condiviso il percorso,
compagno nel cammino, facendosi strada?!
E riposare. Finalmente. Il cuore sazio.
Lacrime asciugate da chi s'è fatto Via, offrendo riparo.


Che cos'è importante? Nella risposta sta la differenza!
La differenza che c'è tra le persone, intendo!
La differenza che c'è tra il pastore ed il mercenario!
La differenza con cui si tratta la propria segullah (proprietà):
la propria vita e quanto ci appartiene, le relazioni ed il futuro!

È nella differenza delle risposte che si coglie il valore delle persone,
la loro dignità, l'onore, e si percepisce con chi si ha a che fare,
e si comprende ciò che fa grandi gli uomini e l'essenziale.

La differenza appare soprattutto quando arriva il lupo!
Ed allora c'è chi fugge e chi deplora, c'è chi affronta e chi evade,
c'è chi scappa e chi rimane! Già. Proprio così!
L'arrivo del lupo è l'ago della bilancia,
che stabilisce la differenza determinando consistenza!
È la vista del lupo che fa gridare Mors tua, vita mea!

Ma questo non accade al buon e bel Pastore,
che invece condivide facendo comunione.

Eh sì! È proprio vero. Gli stiamo a cuore.
Saggia guida il nostro Re,
il Giusto, il nostro bel Pastore!
Che muore per il gregge, per tutti quanti noi!
Depone la sua vita. Lui muore per i suoi.

Unica porta d'accesso dei giusti,
come quella del tempio e del vano inaccessibile,
col fregio d'una bella e grande vite,
con foglie e grappoli d'oro.

Uscio della coscienza all'ascolto della viva Voce!
Per questa porta dove il Maestro accede per il sacrificio,
come quella delle pecore a Gerusalemme,
il Discepolo amato entra ed esce.
La Roccia invece, interrogato dalla portinaia,
rinnegando si rifiuta, perdendo la sua vera identità.
Valle oscura dentro il suo cuore! Vi entrerà più tardi,
dopo essere stato interpellato per tre volte dal Risorto.

Per questa porta entra chi, intimo, nutre affetto e serve.
Rimane fuori invece chi, egoista, pensa solo a se stesso,
a costo di scannare altri, ed è brigante.

Solerte il buon Pastore, che anche adagio invita a proseguire,
donando tempo. Non furtivo. Non dilania. Ci s'innamora.
Sposi, alleati. Fedele, stabilisce il patto!

Lui stesso assume un portinaio, una guardia per custodire l'ovile,
per poi aprire il recinto e le pecore uscire,
raggruppandosi per voce, che affettuosa seduce, ammalia.
Ognuna col suo pastore. Importante è scegliere: Quale?!

Che bello sentirsi chiamare per nome,
da chi conosce la mia vita la mia storia. E conduce!
Che bello riconoscerne la voce!
E fiducioso uscire, andare fuori. Da sé. Vivere!
Nutrirsi d'esistenza in abbondanza.

Con un estraneo no! Tutto questo non avviene.
Si disconosce la sua voce, che grida morte.
Porta avanti propri interessi. Non gli importa benessere altrui.
No, non s'ascolta. S'abbandona la vecchia legge,
i falsi pastori, come fece il Cieco nato!

Cammina accanto al gregge il bel Pastore,
e pure innanzi proteggendo, parando i colpi. E si è al sicuro.
Soglia da attraversare per giungere ad un buon pascolo.
Cibarsi di Lui che è (Io sono) il vero agnello!
Conduce non violento e non al macello, non scanna.
Non come il ladro che per mestiere ruba e poi scompare!
Falso pastore chi crede di vedere.
Guida cieco! Manca di luce.


Il Vangelo del buon e bel Pastore ci colloca nel tempio,
durante la festa della Dedicazione,
che ne ricordava la restaurazione.
Gesù si aggira sotto il portico di Salomone.
Poco prima ha guarito un cieco,
proclamandosi luce del mondo.
Illuminazione!
Ora si dice pastore, per significare quanto gli stiamo a cuore.

Gesù non è un falso pastore, non è un ladro,
non è un estraneo alle pecore, non è un mercenario.
Al contrario, Gesù è padrone legittimo delle pecore,
a lui appartiene il gregge, perché lo conosce, l'accoglie e l'ama.
Le pecore ne riconoscono la voce, l'autorità,
non temono di essere abbandonate nel momento del pericolo,
non hanno paura di essere vendute o di ricevere del male.
Egli dona la sua vita, per questo lo seguono,
sanno che si possono fidare.
È agnello debole Gesù, mite e mansueto,
dirige il gregge, diventando pastore!
Nutrendo di sé non s'impone.
E lo si segue affascinati. Conquistati.
Stiamo riflettendo, è chiaro, ad un livello superiore,
stiamo parlando di persone.
Ma per comprendere tutto questo è necessario l'Alito di vita,
che rimesso al Padre sulla croce,
dal fianco lacerato si dona,
in una pentecoste senza fine.

Mi ascolto
E mi domando: Quante voci udite nella mia vita?
A quali di esse ho dato autorità?
E quali le conseguenze, i prezzi pagati, le tangenti versate?!
Promesse non mantenute, aspettative disattese, illusioni, delusioni.
Chi si prende veramente cura della mia esistenza? E gratuitamente?
A chi concedo fiducia? Chi si sacrifica per me?
Chi mi dedica tempo? Chi mi sorregge?
Chi rinuncia alla propria libertà per promuovere la mia vita?
Chi mi difende nel pericolo? Chi mi sopporta continuando a rimanere?


Mi ha sempre impressionato l'immagine della porta riferita a Gesù.
La possibilità cioè, di accedere dove talvolta è impossibile entrar da soli:
nei misteri della vita e nei segreti della realizzazione,
negli enigmi per il raggiungimento della pace
e nei meandri della comprensione degli eventi,
nell'intendimento intelligente delle ragioni e dello scopo d'ogni cosa.

Mi ha sempre affascinato la capacità che taluni hanno d'ascoltare,
di saper riconoscere parole apprezzabili e la voce di ciò che è importante.


sabato 7 maggio 2011

Domenica 8 maggio - III domenica di Pasqua (anno A)

Domenica 8 Maggio > (Bianco)
III DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) 
LETTURE: At 2,14.22-33   
                    Sal 15   
                    1Pt 1,17-21   
                    Lc 24,13-35: Lo riconobbero nello spezzare il pane.


Commento al Vangelo 
di padre Ermes Ronchi
Cristo cammina con ogni uomo

Undici chilometri da Gerusalemme: Èm­maus è il simbolo del­la mia distanza dalla fede e dalla croce. Èmmaus è casa mia, quando sono tentato di tornare nel mio piccolo an­golo, via dalla comunione con gli altri, chiuso, ferito; fi­nito il sogno in cui tanto ave­vo sperato.
Due ore di cammino fatto in­sieme: e Cristo già si fa vicino, lo fa in ogni esperienza d'a­micizia. Due ore a parlare di lui, ed è il secondo segno del­la sua «ardente presenza» (Rilke).
Non è più qui... hanno detto gli angeli. Egli è per le strade del mondo, rallenta i suoi passi al ritmo dei nostri, den­tro la polvere delle nostre strade, quando sulla mia fe­de scende la sera. Ogni stra­da del mondo porta a Èm­maus.
Gesù si avvicinò e cammina­va con loro. Il Signore ci rag­giunge nella nostra vicenda quotidiana di viandanti. E cambia il cuore, gli occhi e il cammino di ciascuno. Il pri­mo miracolo è così dolce da non accorgersene subito, co­sì necessario da entrare sen­za imporsi: mentre lo scono­sciuto spiega le Scritture, il «cuore lento» inizia a riem­pirsi di un calore nuovo. Che cosa fa ardere il cuore? La sco­perta è racchiusa in una sola parola: la croce. La croce è la gloria. Non un incidente, ma la pienezza dell'amore. Paro­la che seminata nel cuore, lo cambia. E cambia la com­prensione dell'intera vita.
Resta con noi, perché si fa se­ra. Egli rimase con loro. Da al­lora Cristo entra sempre, se appena lo desidero. Il suo nome non è solo «io sono co­lui che è», ma diventa «io so­no colui che è con te».
La parola ha cambiato il cuo­re, il pane cambia gli occhi dei discepoli: lo riconobbero al­lo spezzare del pane. Il segno di riconoscimento di Gesù, il suo stile unico, è il suo corpo spezzato e dato, vita data per nutrire la vita. Il cuore del Vangelo è spezzare anch'io per mio fratello il mio pane, o il tempo, o un vaso di pro­fumo, e condividere con lui cammino, speranza e smar­rimenti.
La parola e il pane insieme cambiano il cammino di o­gni discepolo: partirono sen­za indugio e fecero ritorno a Gerusalemme. Partire verso i fratelli, partire come se la not­te non dovesse venire più, partire con il sole dentro. La fuga triste diventa corsa gioiosa: non c'è più notte, né stanchezza, né distanza, il cuore è acceso, gli occhi ve­dono. Non patiscono più la strada, la respirano, respiran­do Cristo, che è in cammino con ogni uomo in cammino.

venerdì 29 aprile 2011

Domenica 1° maggio 2011 - II Domenica di Pasqua (anno A)


II DOMENICA DI PASQUA o della Divina Misericordia (ANNO A)
(Bianco)
Letture: At 2,42-47   
                   Sal 117 "Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre"  
                   1Pt 1,3-9
                   Gv 20,19-31: Otto giorni dopo venne Gesù.

Commento al Vangelo
di padre Ermes Ronchi

La Pasqua senza la croce è vuota

«Se non vedo, se non tocco, io non credo». Non cre­de Tommaso neppure a die­ci apostoli: «non viene da voi la prova di cui ho bisogno. Io voglio sentire Cristo che toc­ca Lui la mia vita, Cristo che entra, apre, solleva, e traccia strade. Non mi accontento di parole, ho bisogno di 'senti­re' Dio, di un Dio sensibile, u­dibile, visibile; non di un rac­conto, ma di un avvenimen­to. Ho bisogno che la sua vi­ta scuota la mia vita, e senti­re che è per me, che è mio». Ed ecco che Tommaso non ricerca segni gloriosi o trion­falistici, ma vuole toccare le ferite vive e aperte della pas­sione, rivedere il corpo dato, il sangue versato: lì è con­densata l'essenza della fede. Finché non partecipi, finché non sei coinvolto nell'im­menso gioco dell'amore e del dolore di Dio, non puoi dire: io credo, Signore!
«Metti qui il tuo dito, tendi la tua mano!». Gesù si fa vicino, voce che non giudica ma in­coraggia, e i segni dei chiodi sono a distanza di mano e di cuore: il risorto è il crocifisso. La Pasqua senza la croce è vuota. La croce senza la Pa­squa è cieca. Tommaso si arrende a un crocifisso amore che accon­discende alla sua fatica di credere e consegna ancora il suo corpo; si arrende a quel foro nel fianco e neppure si dice che lo abbia toccato. Si arrende all'amore che ha scritto il suo racconto sul cor­po di Gesù con l'alfabeto del­le ferite. Indelebile alfabeto, come l'amore. A ciascuno di noi Gesù ripete: «guarda, stendi la mano, tocca le pia­ghe, ritorna ai giorni della croce; guarda a fondo, fino alla vertigine, in quei fori; porta i tuoi dubbi al legno della croce, troveranno ri­sposta; non stancarti di a­scoltare la passione di Dio».
E Tommaso passa dall'incre­dulità all'estasi: «Mio Signo­re e mio Dio». Voglio custo­dire in me questo aggettivo, come una riserva di coraggio per la mia fede: «Mio». Pic­cola parola che cambia tutto, che non evoca il Dio dei libri o degli altri, ma il Dio intrec­ciato con la mia vita, mia lu­ce e mia ombra, assenza e poi più ardente presenza. Tom­maso come l'amata del Can­tico dei Cantici dice: «Il mio amato è per me e io sono per lui». Mio, non di possesso, ma di appartenenza. Mio, in cui mi riconosco perché da lui sono riconosciuto. Mio, per­ché esiste per me, mia luce e mio dolore. Mio come lo è il cuore e, senza, non sarei. Mio come lo è il respiro e, senza, non vivrei.

domenica 24 aprile 2011

Domenica 24 aprile 2011 - Pasqua di Risurrezione

PASQUA DI RISURREZIONE

Gv 20,1-9
Egli doveva risuscitare dai morti.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

venerdì 15 aprile 2011

Domenica 17 aprile - Domenica delle Palme


Domenica 17 Aprile > DOMENICA DELLE PALME (ANNO A)
(DOMENICA - Rosso)
Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   
Mt 26,14- 27,66: La passione del Signore.
 

Commento al Vangelodi Paolo Curtaz 
 
Il deserto, ormai, volge al termine. Abbiamo seguito il Rabbì nei quaranta giorni della quaresima, cercando di convertire il nostro cuore, sforzandoci di cambiare l'immagine mediamente orribile di Dio che portiamo nel cuore. Vorremmo un Messia muscoloso e trionfante. Gesù è un Messia mite e mediocre. Ci avviciniamo alla croce con superficialità: Gesù morirà in croce, Dio nudo e consegnato, per svelare in maniera inequivocabile il vero volto di Dio. Siamo pronti ormai, alla fine di questo percorso, a sederci e guardare lo scandaloso evento della croce, a seguire il Maestro nel suo dono d'amore. L'ultimo. Il più grande. La settimana che oggi iniziamo, così grande, così importante da essere chiamata "santa", è il gioiello dell'anno liturgico, una perla troppo spesso dimenticata da noi cristiani, a vantaggio di feste forse più sentimentali ma intrise di riletture consumistiche (vedi il Natale). Qui no. Un morto in croce non si vende, non suscita sentimenti di bontà. Si parla poco e male di questo Dio che sale sulla croce e muore. Rimane difficile da capire il mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola "resurrezione". Così è: la Chiesa si ferma stupita a meditare sulla misura dell'amore di Dio. Fermi, zitti, Dio si prepara a morire, Cristo celebra la sua presenza nell'ultima Pasqua, la nuova, viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, vive.

venerdì 8 aprile 2011

V DOMENICA di Quaresima 10 aprile 2011



LETTURE : 
Ez 37,12-14; Sal 129 Il Signore è bontà e misericordia; Rm 8, 8-11;
Gv 11, 1-45: Io sono la risurrezione e la vita

 


Omelie sul Vangelo del giorno


dall’Eremo di San Biagio 

“Gesù scoppiò in pianto”.

Come vivere questa Parola?
Quanto diversa da quella che ci siamo costruiti noi, l'immagine di questo Dio che piange dinanzi alle nostre tombe! No, Dio non è insensibile al dolore umano. Il vangelo ce lo mostra in lacrime non solo per la morte di Lazzaro, ma anche per la sorte che attende Gerusalemme, ne registra la commozione dinanzi allo smarrimento delle folle che lo seguono in cerca di una guida, e il premuroso affiancarsi a chi soffre per frenarne il pianto, come per la vedova che segue il feretro del figlio.

Ma c'è ancora un particolare molto eloquente: piange per l'amico. L'uomo non è per lui un estraneo: è l'amico! E se questi soffre, egli si fa vicino, prossimo, come il Samaritano che si china a curare le piaghe del malcapitato che scende da Gerusalemme a Gerico. Non passa incurante accanto a nessuno. Anche il mio pianto non lo lascia indifferente, il mio soffrire lo fa fremere di commozione.

Ma allora perché sembra non intervenire davanti al dilagare di tanta sofferenza? Come i Giudei ci verrebbe da dire: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». E invece ha indugiato ancora due giorni prima di recarsi presso Lazzaro e le sue sorelle.

Un po' di luce su questo inquietante modo di agire divino ci viene dal dialogo tra Gesù e i discepoli. Due modi profondamente diversi di guardare la morte: per i discepoli è la fine di tutto, per Gesù è un sonno da cui egli è venuto a ridestarci. Non la morte fisica, ma quella procurataci dal peccato è quanto dobbiamo temere. Nella prima si rivela la gloria di Dio che ne fa l'ingresso nella vita, da cui filtra la luce della resurrezione.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, sosterò a riflettere su quell'attardarsi di Gesù "due giorni ancora" che talvolta mi trovo a sperimentare nel mio vissuto. Due giorni che accrescono la fede, rafforzano la fiducia, purificano l'amore.


Quando taci, Signore, quando mi fai attendere "due giorni ancora" prima di farmi sentire nuovamente la tua presenza e sperimentare il tuo intervento salvifico, donami la forza di ripetere come Marta: Sì, o Signore, io credo!


La voce di un martire dei nostri giorni
A volte il dolore è come un'opera di restauro: il Signore scrosta e toglie per purificare e sostituire. A volte "demolisce" per "fare una cosa nuova".

don Andrea Santoro

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di padre Raniero Cantalamessa

Dobbiamo risuscitare i morti nel cuore
Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c'è una risurrezione del corpo e c'è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà "nell'ultimo giorno", quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.

Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un'immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: "La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti". Ad essi è rivolta la promessa di Dio: "Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe...Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete". Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano "un esercito grande, sterminato". Era il popolo d'Israele che tornava a sperare dopo l'esilio.

Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di...morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell'anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.

A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall'alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.

Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c'è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c'erano dei "giudei venuti per consolarle", ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna "mandare a chiamare Gesù", come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l'attenzione dei soccorritori.
Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: "Guarite gli infermi, risuscitate i morti" (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: "Egli era morto ed è tornato in vita" (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.

Quel comando: "Risuscitate i morti" è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n'era che diceva: "seppellire i morti"; adesso sappiamo che c'è anche quella di "risuscitare i morti".


sabato 2 aprile 2011

IV DOMENICA di Quaresima 3 aprile 2011


IV DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO A) - LAETARE!
LETTURE : 
1 Sam 16,1.4.6-7.10-13   Sal 22 Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla Ef 5,8-14

Gv 9,1-41  Andò, si lavò e tornò che ci vedeva


Omelia sul Vangelo


don Alberto Brignoli
E se invece Dio...

È facile, è comodo, ed è pure bello entrare in relazione con un Dio "a nostra immagine e somiglianza". Ovviamente, non mi riferisco a un Dio che possa apparire come una nostra creazione o come una supposizione della nostra mente, ma a un Dio alla cui devozione e riverenza siamo stati educati fin da piccoli. Il Dio dei nostri genitori, della "nostra" catechesi e delle "nostre" esperienze giovanili in parrocchia, per intenderci. Un Dio che è presente laddove lo cerchiamo, in una Chiesa a noi familiare o in un gruppo di amici con cui condividiamo la fede; un Dio che sentiamo vicino perché porge orecchio alle nostre suppliche e preghiere; un Dio che ci immaginiamo raffigurato secondo lo stile "manieristico" di una certa iconografia; un Dio la cui essenza ci risulta ben delineata attraverso le formule del Catechismo imparate a memoria, e via dicendo.
E se invece Dio fosse diverso da come noi ce lo siamo sempre immaginato e da come sempre lo abbiamo pregato?
E se Dio si rivelasse alle vicende umane (e quindi anche alla nostra personale vicenda) in maniera poco convenzionale?
E se Dio per salvarci ci dicesse che lui può benissimo fare a meno di strutture, di norme, di leggi, di schemi, di convenzioni, di formule imparate a memoria?
E se Dio scegliesse di lasciarsi trovare da chi agli occhi dei benpensanti della fede non conta nulla, e si nascondesse allo sguardo scrupoloso, attento e a volte fin troppo devoto di teologi, filosofi e ricercatori?
E se Dio preferisse non sentirsi dire dall'uomo: "Io ti conosco", ma piuttosto: "Io credo in te"?
E se un Dio così, alla fine, fosse molto simile al Dio di Gesù Cristo?
Forse credere non sarebbe più così comodo, facile o bello come pensiamo e sentiamo, ma di certo sarebbe molto più "vero".
Perché vera fede non è quella dei manuali o dei trattati di teodicea: vera fede è quella del Calvario, del Getsemani, di un "Sì, io credo" detto a Dio nell'accettazione spesso anche sofferta della sua rivelazione e della sua volontà.
La Parola di questa domenica è una meravigliosa catechesi sul Credo, e agli albori della storia della Chiesa veniva annunciata ai catecumeni che si preparavano a ricevere il Battesimo nel giro di una ventina di giorni, la notte di Pasqua. Un Credo che è espressione di un cammino di ricerca, iniziato ai bordi di un pozzo di Samaria e culminato a Betania, intorno alla tomba lasciata vuota dal corpo di un amico strappato ai lacci della morte.
Nel bel mezzo ci sta la piscina di Siloe, dove Gesù ci "imbratta" gli occhi con fango e saliva per lavare via la pessima immagine di Dio che l'umanità si è costruita nei secoli.
Già, perché se pensiamo che il Dio d'Israele per il suo popolo scelga un re tra coloro che erano - come Eliàb - alti più di ogni altro uomo "dalla spalla in su", ci sbagliamo di grosso: Dio sceglie il suo Re, il suo Consacrato, tra i piccoli pastori delle disperse greggi dei campi di Betlemme. E ai loro successori annuncerà, qualche secolo dopo, la nascita dell'ultimo e definitivo Re, il Figlio suo Unigenito.
E via di questo passo: Dio non si rivela all'umanità come il castigatore che fa nascere cieco un uomo per via della colpa originale che è in lui o per punire le colpe dei suoi padri, ma si manifesta come il Dio della misericordia, che ha compassione delle nostre miserie, le prende su di sé e le risana.
Dio non si rivela all'uomo nella rigidità dottrinale di una legge che impedisce, in giorno di sabato, di salvare una vita perché c'è un riposo da osservare, ma nella repellente impurità di un po' di fango e saliva gettati sugli occhi di un cieco che non poteva lodare Dio per la Creazione, perché nemmeno sapeva come fosse.
Dio non ascolta le chiacchiere dei capi dei Giudei, dei farisei, e degli illuminati di turno che condizionano la veridicità dei suoi gesti alla conformità alle regole, ma rivolge il suo orecchio alle suppliche del povero, che in maniera confusa grida a lui e che poi, riconoscente, sa proclamare in lui la propria fede.
Dio non ascolta chi, sottoponendolo a uno scrupoloso e inappellabile giudizio, pecca contro di lui, ma rivolge il suo sguardo e chi lo onora e fa la sua volontà, pur senza avere una laurea in teologia morale, in filosofia o in diritto canonico.
Il Dio di Gesù Cristo non ha mai espulso nessuno dalla sinagoga per averlo riconosciuto presente nei gesti e nelle parole di speranza e di salvezza di un rabbino non ufficiale; però sì ha scacciato dal tempio chi lo ha identificato con i torbidi guadagni provenienti dal commercio della fede, spesso giustificati come "volontà di Dio".
Se il Dio di Gesù Cristo si fosse lasciato "inscatolare" dalla legge del sabato che giungeva fino al punto di dichiararlo peccatore per aver salvato una vita, oggi più nessuno potrebbe gioire della splendida luce di una fede viva, pura, senza macchia.

sabato 26 marzo 2011

III DOMENICA di Quaresima 27 marzo


III DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO A)
LETTURE : 
Es 17,3-7   Sal 94 Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore  Rm 5,1-2.5-8

Gv 4,5-42  Sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna.


Omelie sul Vangelo 


mons. Vincenzo Paglia  

Sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna

Il Vangelo ci presenta Gesù, stanco. Ma non tanto per il cammino fatto. La sua stanchezza nasceva dal continuo correre dietro di noi per difenderci dai pericoli ai quali andiamo incontro, per liberarci dai peccati nei quali cadiamo. Aveva anche fame, ma non di pane. I discepoli, dopo aver portato il cibo, gli dicono: "Rabbì, mangia". Egli però risponde: "Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete... Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato". I discepoli, come al solito, non capiscono. La fame di Gesù era portare a compimento l'opera del Padre. Gesù aveva sete, ma non tanto di acqua. Quando chiede a quella donna "Dammi da bere", Gesù ha sete di salvare quella donna; potremmo dire che ha sete del suo affetto, come del nostro. In genere fuggiamo da questa richiesta di amore e di compagnia così forte e radicale, perché senza dubbio l'amore del Signore è un amore esigente, e scegliamo i nostri piccoli amori, le nostre piccole rivincite. E opponiamo a lui la stessa resistenza che gli oppose quella donna samaritana: "Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?". In realtà quella richiesta di Gesù superava già un muro. Egli parlava con una donna, per di più samaritana. Un proverbio rabbinico insegnava: "Chi mangia pane dei samaritani è come uno che mangia carne di cane".
La donna è scossa dalla richiesta di Gesù, ma non comprende l'energia di amore che è nascosta dietro quelle parole: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: 'Dammi da bere!', tu stessa ne avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva". Dio amava quella donna quando era ancora lontana; ma lei non se n'era accorta. La sua vita, segnata dalle delusioni e dai tradimenti, forse non le dava più speranza alcuna. È la storia dei cinque mariti. Ormai non crede molto negli altri e non ha neppure tanta fiducia in sé. E come poteva aver fiducia di uno straniero? Come poteva capire che era Dio a parlarle in quel giudeo stanco e assetato e senza neppure uno strumento per prendere l'acqua? "Da dove hai dunque quest'acqua viva?" gli chiede rassegnata e scettica. Per lei abituata alla durezza della vita, la parola non conta più, non cambia, non dà vita. Quella donna è molto simile a noi. La sua vita è piena di tradimenti e problemi. È diventata una donna dura, costretta a difendersi ed a rispondere in maniera aggressiva ("Come mai tu chiedi da bere a me?"). Aggressiva per non ammettere le delusioni ed il fallimento. Lo fa con tutti; anche con quell'estraneo che le parla con semplicità ed in maniera diretta. È una poveretta, con una vita complicata, che deve percorrere un lungo itinerario per andare a prendere l'acqua. È una donna forte della sua esperienza, che pensa di conoscere già la vita. I suoi giudizi sono rapidi.
Che può fare quell'uomo senza mezzi, debole e che non ha come prendere l'acqua? Lei non crede più a niente, solo alla sua brocca, alla sua fatica, a quello che vede e tocca con le sue mani. Il Vangelo è un sogno fuori dalla realtà! Per lei scettica, materialista, abituata alla durezza della vita, le parole non contano più. Ma è anche furba. Quando Gesù parla di un'acqua diversa, per cui non avrebbe più avuto sete e non sarebbe stato più necessario camminare fino al pozzo, cerca subito la sua convenienza. Vuole prendersi qualcosa del Vangelo senza cambiare nulla. Desidera impadronirsi di una convenienza, ma restare quella di sempre. L'incontro con Gesù è personale. Tocca il cuore. Gesù l'aiuta ad essere se stessa. "Non ho marito", dice. Non racconta tutto di sé. Gesù non la aggredisce, non la umilia in una descrizione imbarazzante della sua storia di tanti amori cercati e traditi. È lui che le spiega, con sensibilità, tutta la sua vita. La verità è Gesù. Proprio questo colpisce la donna: essere capita, conosciuta così com'è ed essere amata! Non è una legge o un giudizio che cambia i cuori, ma il lungo ed insistente incontro con quell'uomo che parla con libertà ed amore. Lasciamoci dire da lui tutto quello che abbiamo fatto! Diventeremo una fonte, nell'aridità della vita. Parleremo a tanti, con la meraviglia della donna samaritana, di qualcuno che ci ha parlato con amore!
La Chiesa, diceva papa Giovanni, è come la fontana in un villaggio: è per tutti, e tutti possono avvicinarsi per prendere l'acqua dell'amore e della consolazione. Sia così anche per i nostri cuori, possessivi e peccatori, ma conosciuti, amati e perdonati dal Signore, uomo assetato che cammina e chiede amore. Il Signore c'insegni ad essere fonte d'amore, servendo chi ha sete. 


don Bruno Maggioni  

Quando Dio spiazza le nostre attese

Il cammino che la donna di Samaria percorre non è senza resistenze. L'evangelista Giovanni sa molto bene che la ricerca di Dio da parte dell'uomo corre sempre il pericolo di rinchiudersi in se stessa, è sempre minacciata, e di queste resistenze mette lucidamente a nudo le radici. L'evangelista sfrutta molto – qui e altrove – il motivo dell'incomprensione. Vuole evidenziare che l'uomo, abbandonato a se stesso, non è capace di capire la parola di Dio, né di raggiungerla, né di interpretare correttamente le proprie attese. La donna intuisce qualcosa del dono di cui Cristo parla (l'acqua), ma lo interpreta sul metro delle proprie preoccupazioni: «Signore, gli disse la donna, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (4,15). La tentazione di chi cerca Dio è sempre di rinchiudere il dono di Dio dentro la propria attesa. Ma Dio non si lascia rinchiudere nelle attese dell'uomo: le dilata. La donna cerca di situare Gesù nelle categorie religiose tradizionali, ma Gesù non esita a mostrare la loro inadeguatezza. Per due volte – a proposito del dono dell'acqua e del luogo del culto – la donna evoca la grandezza dei patriarchi (4,12.20), evoca il passato: la sua ricerca è chiusa nel passato. Gesù la costringe a guardare al futuro e a prendere coscienza che nel mondo è arrivata la novità e che questa rinnova il problema dalle fondamenta.
Infine, con la sua ultima affermazione (4,25) la donna mostra di restare ancora in attesa di un futuro, chiusa dentro l'attesa messianica tradizionale: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Gesù attira l'attenzione su di sé, sul presente: «Sono io, che ti parlo» (4,26). La donna deve accorgersi – e solo così la sua ricerca giunge al termine – che il futuro da lei sperato ha già avuto inizio.
Ci restano ancora due piccole annotazioni. La prima è che la donna, giunta al punto in cui Gesù intendeva condurla, lascia le sue precedenti preoccupazioni e corre in città (4,28). Il suo incontro con Cristo si fa corale e missionario. La seconda è che i samaritani giungono alla fede stimolati dalla testimonianza della donna, ma poi abbandonano questa testimonianza per far posto all'esperienza personale: «Dicevano alla donna: non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (4,43). Questo cammino/ricerca della donna di Samaria è, ovviamente, un'immagine del cammino di ogni uomo verso Dio.

lunedì 21 marzo 2011

II DOMENICA di Quaresima 20 marzo 2011

II DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO A)
LETTURE : 
Gen 12,1-4   Sal 32  Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo   2Tm 1,8b-10
Mt 17,1-9: Il suo volto brillò come il sole.  


Omelie sul Vangelo 

di Paolo Curtaz

Ogni seconda domenica di quaresima siamo invitati a salire sul Monte Tabor, per fare esperienza della straordinaria bellezza di Dio. L'obiettivo della quaresima è la vivificazione, non la mortificazione, è avere un cuore gioioso e libero di amare.<7i>


Lungo come un Quaresima. Nella simpatica e luminosa coscienza cristiana del passato, questa frase sintetizza bene l'atteggiamento di insofferenza verso questo tempo liturgico che ci appare come un'imposizione di (inutili) sacrifici e desueti fioretti per mortificare il corpo. Al contrario, la Quaresima autentica non mortifica, vivifica, sapendo bene che la vita interiore è lotta radicale contro l'aspetto tenebroso della nostra coscienza e che non basta rinunciare ai dolci per convertire il cuore. Ben più radicale è l'atteggiamento che il Maestro oggi ci chiede, non subire una serie di privazioni che ci siamo imposti, ma scegliere di scegliere, spalancare il cuore all'amore di Dio, salire sul Tabor, lasciare che la nostra anima, infine, ci raggiunga. È un vangelo poco "mortificato" e penitenziale quello che ogni anno la liturgia (saggiamente) ci propone, quasi a soffocare sul nascere la triste consuetudine cattolica di essere tristi, specialmente quando si parla di Dio. Sbagliato: quando si parte nel deserto il cuore è allegro, perché alla fine saremo liberati da Faraone e dal suo esercito. Quando si sale sulla montagna, malgrado la fatica, ciò che ci spinge a salire è la gioia che proveremo nello spaziare con lo sguardo oltre le cime. Pietro e gli altri sono esterrefatti da quanto accade: Gesù maestro, profeta affascinante, si rivela per quello che è; ed è un'esperienza travolgente, di bellezza sconfinata. Quanto dobbiamo recuperare questa dimensione della bellezza nella nostra vita cristiana!


di padre Raniero Cantalamessa  

Per amare Gesù bisogna conoscerlo

Perché la fede, le pratiche religiose sono in declino e non sembrano costituire, almeno per i più, il punto di forza nella vita? Perché la noia, la stanchezza, la fatica nell'assolvere i propri doveri di credenti? Perché i giovani non si sentono attirati? Perché, insomma, questo grigiore e questa mancanza di gioia tra i credenti in Cristo? L'episodio della trasfigurazione ci aiuta a dare una risposta a queste domande.

Cosa significò la trasfigurazione per i tre discepoli che assistettero ad essa? Finora essi avevano conosciuto Gesù nella sua apparenza esterna, un uomo non diverso dagli altri, di cui conoscevano la provenienza, le abitudini, il timbro di voce... Ora conoscono un altro Gesù, il vero Gesù, quello che non si riesce a vedere con gli occhi di tutti i giorni, alla luce normale del sole, ma è frutto di una rivelazione improvvisa, di un cambiamento, di un dono.

Perché le cose cambino anche per noi, come per quei tre discepoli sul Tabor, bisogna che succeda nella nostra vita qualcosa di simile a quello che capita a un giovane o a una ragazza quando si innamorano. Nell'innamoramento l'altro, l'amato, che prima era uno dei tanti, o forse uno sconosciuto, di colpo diventa l'unico, il solo al mondo che interessi. Tutto il resto indietreggia e si colloca come su uno sfondo neutro. Non si è capaci di pensare ad altro. Avviene una vera e propria trasfigurazione. La persona amata viene vista come in un alone luminoso. Tutto appare bello in lei, perfino i difetti. Se mai, ci si sente indegni di lei. L'amore vero genera umiltà. Qualcosa cambia anche concretamente nelle proprie abitudini di vita. Ho conosciuto ragazzi che al mattino i genitori non riuscivano a tirare fuori dal letto per far andare a scuola; se si trovava loro un lavoro, dopo un po' lo abbandonavano; oppure si trascinavano negli studi senza laurearsi mai... Poi, ecco che, una volta innamoratisi di qualcuno e diventati fidanzati, al mattino saltano dal letto, sono impazienti di terminare gli studi, se hanno un lavoro se lo tengono caro. Cosa è successo? Niente, semplicemente quello che prima facevano per costrizione, ora lo fanno per attrazione. E l'attrazione è capace di far fare cose che nessuna costrizione riesce a far fare; mette le ali ai piedi. "Ognuno, diceva il poeta Ovidio, è attratto dall'oggetto del proprio piacere".

Qualcosa del genere, dicevo, dovrebbe succedere una volta nella vita per diventare cristiani veri, convinti, gioiosi di esserlo. "Ma la ragazza o il ragazzo, si vede, si tocca!" Rispondo: Anche Gesù si vede e si tocca, però con altri occhi e con altre mani: quelli del cuore, della fede. Egli è risorto ed è vivo. È un essere concreto, non un'astrazione, per chi ne fa l'esperienza e la conoscenza. Anzi con Gesù le cose vanno ancora meglio. Nell'innamoramento umano, ci si inganna, attribuendo all'amato doti che forse non ha e con il tempo si è spesso costretti a ricredersi. Nel caso di Gesù, più si conosce e si sta insieme, più si scoprono nuovi motivi per essere innamorati di lui e confermati nella propria scelta.

Questo non vuol dire che bisogna starsene tranquilli ad aspettare, anche con Cristo il classico "colpo di fulmine". Se un ragazzo, o una ragazza, se ne sta tutto il tempo chiuso in casa, senza vedere nessuno, non succederà mai niente nella sua vita. Per innamorarsi bisogna frequentarsi! Se uno è convinto, o semplicemente comincia a pensare che è bello e vale la pena conoscere Gesù Cristo in questo modo diverso, trasfigurato, allora bisogna che cominci a "frequentarlo", a leggere i suoi scritti. Le sue lettere d'amore sono il Vangelo! È lì che egli si rivela, si "trasfigura". La sua casa è la Chiesa: è lì che lo si incontra.

lunedì 14 marzo 2011

I Domenica di Quaresima 13 marzo 2011

I DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO A)
LETTURE : 
Gen 2,7-9; 3, 1-7   Sal 50  Perdonaci, Signore, abbiamo peccato   Rm 5,12-19
Mt 4,1-11: Gesù digiuna per quaranta giorni nel deserto ed è tentato 

Omelia sul Vangelo
di don Marco Pozza

 Il Bastardo è rimasto in mutande

Poteva esordire con un miracolo e sarebbe risultato più simpatico e appetibile. Un Cristo prestigiatore per levarsi la fame, un Cristo funabolo per sedurre la folla, un Cristo acrobata per svegliare il pronto intervento degli Angeli. Alla fine, però, ce ne rimette lui, Satana il Bastardo: uno psicologo goffo, un dilettante di teologia, un uomo vittima di un mestiere che si è logorato nei secoli. Eppure ci crede davvero, ci crede forse più di noi, lo cerca infinitamente più del popolo che millenni dopo griderà Signore, Signore. Peccato per quell'inesperienza dovuta all'imbattersi in Colui che gli sta di fronte: come può Satana dare ciò che non possiede? Qualcuno ancora s'azzarda ad attribuire a Satana la proprietà della materia: cattedrali, giardini, vallate e mura antichissime. Nulla di più sbagliato sotto il cielo della catechesi: di Satana è la bava che si lascia sulle cattedrali (e sulla loro datata chincaglieria), sulle ville e sui poderi altrui. Lui non è mai stato proprietario di nulla quaggiù ma semplicemente l'usurpatore primo di ciò che avrebbe voluto essere suo. "Va via, Satana" gli impone lo Sfidante: probabilmente glielo dice con dolcezza, con mansuetudine, con netta fermezza. Forse con un sogno: che a nessun uomo - sulla scia del Bastardo - passi per la mente di ritentarlo con le medesime astrusità. Satana ha scelto l'Avversario sbagliato: non sempre al massimo dell'intelligenza corrisponde il massimo dell'intuizione. Lo pensava un fringuello nelle sue mani, un giovane pacioccone e azzurrognolo nello sguardo, un sognatore inesperto alle prime armi. Non aveva capito che quell'Uomo accettava la sua sfida per trarne un insegnamento da diffondere nei secoli a venire, per sfidare Lui stesso l'arroganza del suo Contrario. Al fascino del miracolo, scelse l'asprezza della tentazione come lectio magistralis sul pulpito della storia: per spartire con la sua discendenza la dura legge di chi nasce uomo. Senza illudere.

E sul pinnacolo del Tempio l'Uomo-Dio riscatta quella stupidaggine firmata dal Diavolo nel Giardino dell'Eden. Perfido Satana (e tutti i suoi imitatori). Lui lo sa che non è vero, eppure ci prova lo stesso: "E' vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?" (Gen 2,17). In realtà all'inizio non c'era una proibizione, ma una possibilità molto ampia: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino" (Gen 2,16). Solo dopo si stabilisce un limite. Eppure è su questo che Satana ci gozzoviglia: lui diffonde la caricatura di un Dio che castra, di un Dio sadico, di un Dio che dice "guarda che meraviglia" e poi te la nega spudoratamente. Di un Dio che accende il desiderio di Adamo e poi glielo spegne sul nascere. Questo è il Dio di Satana e di una fetta di Chiesa. In realtà in principio era la gioia e il godimento per i suoi Figli: solo dopo vennero delle "barriere protettive" per non insozzare tale gioia. Per l'uomo la restrizione è una castrazione, per Dio è una salvaguardia della vera Gioia. Satana costringe Adamo a fermarsi su quella strettoia, gli violenta lo sguardo, gli occulta la visuale: Satana è un Bastardo perché la sua proposta di trasgressione è in vista di una diminuzione dell'uomo. Usa il sospetto e molti dopo di lui lo impugneranno come arma mortale: perché il sospetto non fa morire subito ma logora, infastidisce, lacera e sfinisce la mente, l'anima, i pensieri. Di sospetto si impazzisce all'inverosimile: si sfaldano legami, marciscono esistenze, s'impolverano ideali. E Satana - un capace senza il carisma di Dio - ringrazia e rilancia l'avventura. Infiacchendo l'uomo ch'era il sogno della Creazione stessa. E invitandolo al carnevale organizzato nell'Inferno.

"Ed è mai scappato di casa quando aveva otto anni?" gli chiese, levando lo sguardo e deglutendo forte. Dentro aveva una cosa a cui non voleva pensare, una cosa che lo avrebbe solo intristito. Aveva cercato di evitare quel pensiero da quando si era svegliato, al mattino, ma purtroppo lui aveva la cattiva abitudine di riformarsi tra le dita dei suoi piedi, risalire lungo le caviglie e su per le gambe fino alla schiena, e arrivare diritto al cervello, da dove spediva agli occhi immagini che Noah non aveva alcuna voglia di vedere.

(John Boyne, Il bambino con il cuore di legno, Rizzoli, Milano 2010, 82)

Cristo heri, hodie et semper. Ma anche Satana heri, hodie et semper. Così nessuno potrà dire ch'eravamo condannati ad una scelta già fatta.

mercoledì 9 marzo 2011

mercoledì delle ceneri

Omelia dall'Eremo di San Biagio 

dalla Parola del giorno
Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore.

Come vivere questa Parola?
Le ceneri aprono il sacro tempo della QUARESIMA, questa primavera dello spirito che invita a rompere la corteccia del cuore che i rigori invernali dell'egoismo, sempre insorgente, possono aver indurito. Una difesa istintiva che siamo tentati di erigere di fronte alle prove, ma che blocca la gioia della fioritura e la ricca stagione dei frutti, per cui siamo creati.
L'invito è a lacerare il CUORE. Un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui ci verrebbe da rifuggire. Ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla PIENEZZA DELLA VITA. Già l'immagine della corteccia che si spacca per lasciare alla gemma la possibilità di esplodere parla di vita, più ancora quella, introdotta da Gesù, del grembo materno che si apre per dare origine a una nuova esistenza.
Ecco, cos'è la Quaresima: il tempo veramente propizio per scavare in profondità, rimuovere quanto rischia di soffocare la parte più autentica di noi stessi, quella che attinge direttamente alla SORGENTE a Dio. E il tutto per un di più di vita!
Non c'è spazio per una religiosità superficiale, per atti puramente esteriori. Il gesto di "lacerarsi le vesti", tradotto oggi con il rito penitenziale delle ceneri, ha senso solo se è espressione di un cuore che intende schiudersi all'azione della GRAZIA e riprendere slancio verso Dio.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi metterò a nudo dinanzi a Dio chiedendo umilmente che mi faccia riconoscere eventuali incrostazioni del mio cuore e mi aiuti a rimuoverle.

Aiutami, Signore, a lacerare il cuore e non le vesti, senza timore di mettere a nudo la mia vulnerabilità. Solo così potrò offrire a te e ai fratelli un cuore capace di palpiti di amore autentico.

La voce di un dottore della Chiesa
Il digiuno non germoglia se non è innaffiato dalla misericordia.
San Pietro Crisologo