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mercoledì 24 novembre 2010

domenica 21 novembre 2010 CRISTO RE



Omelia di don Luca Orlando Russo

«Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno»

È doveroso chiedersi come mai la liturgia per la solennità di Cristo, re dell'universo ci presenti un brano tratto dalla passione. Durante un'esperienza di umiliazione come quella che ha vissuto Gesù è davvero difficile scorgere la regalità di Gesù.
Altrettanto difficile era immaginare che a riconoscere la sua regalità fosse uno dei due malfattori che fu crocifisso con Gesù. Infatti, mentre il suo compagno continuava a ingiuriare Gesù, egli si dissociò da lui e, riconoscendo la colpevolezza di entrambi e l'innocenza di Gesù, si rivolse a lui chiamandolo per nome, con queste parole: "Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno!"
Re. Dove andò quel malfattore a prendere quel titolo? Forse orecchiando gli scherni ed i lazzi della gente circostante, si accorse che colui che tutti chiamavano re per burla, era invece re davvero.
Re. Ma di che cosa?
Mah, forse neppure quel malfattore avrebbe saputo spiegarlo. O forse sì! Un uomo capace di morire così doveva essere certamente re di qualcosa: re di quella dimensione nuova di esistenza in cui l'incontro con Gesù l'aveva introdotto e in cui lo stesso Gesù era stato introdotto.
La fedeltà, infatti, dell'amore di Dio, suo Padre, ha costituito Gesù, il figlio del falegname, Signore e re della morte: Signore della morte a servizio della vita; dunque Signore della morte e della vita.
Signore della morte, perché vivendo la libertà del suo morire per amore, Gesù ha annientato il vero potere della morte, che è la paura.
Signore della vita, perché attraverso di lui l'Amore realizza il trionfo della vita.
Gesù esercita tale regalità in maniera stabile e duratura; così stabile e così duratura, da abbracciare con la sua regalità, i confini dello spazio e del tempo, a servizio della vita dell'uomo.
La storia del cosiddetto "buon" ladrone ci fa capire che Gesù invita tutti a condividere con lui questa signoria così che chiunque lo desidera, insieme con lui, possa regnare sulla vita e sulla morte; in nome dell'amore.
Ciò vuol dire che Dio, attraverso la mediazione di Gesù, condivide con noi, fragili creature, la sua stessa regalità sulla vita e sulla morte ogni volta che, attraverso l'esercizio dell'amore, ci spendiamo a servizio della vita "morendo" un po'.
Gesù per amore nostro ha donato tutta la sua vita e ha manifestato così quanto è falsa quella concezione, tanto diffusa tra noi uomini, che a regnare è la prepotenza di coloro che con la violenza, più o mena esplicita, si impongono.

sabato 13 novembre 2010

domenica 14 novembre XXXIII T.O. (anno C)


 Domenica 14 novembre XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

 Letture:

Ml 3,19-20   Sal 97   2Ts 3,7-12   Lc 21,5-19: Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita

Omelia di p. Raniero Cantalamessa

Il segreto del lavoro, mettere il cuore in quello che fanno le mani

Il Vangelo di questa Domenica fa parte dei famosi discorsi sulla fine del mondo, caratteristici delle ultime domeniche dell'anno liturgico. Pare che in una delle prime comunità cristiane, quella di Tessalonica, vi fossero dei credenti che traevano, da questi discorsi di Cristo, una conclusione sbagliata: inutile affannarsi, inutile lavorare e produrre, tanto tutto sta per passare; meglio vivere giorno per giorno, senza assumere impegni a lungo termine, magari ricorrendo a piccoli espedienti per vivere.

Ad essi risponde san Paolo nella seconda lettura: "Sentiamo che alcuni di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace". All'inizio del brano, san Paolo ricorda la regola che egli ha dato ai cristiani di Tessalonica: "Chi non vuole lavorare, neppure mangi".

Questa era una novità per gli uomini di allora. La cultura alla quale essi appartenevano disprezzava il lavoro manuale, lo riteneva degradante per la persona e tale da essere lasciato agli schiavi e agli incolti. Ma la Bibbia ha una visione diversa. Fin dalla prima pagina essa presenta Dio che opera per sei giorni e si riposa nel settimo giorno. Tutto questo, prima ancora che nella Bibbia si parli del peccato. Il lavoro fa dunque parte della natura originaria dell'uomo, non della colpa e del castigo. Il lavoro manuale è altrettanto dignitoso di quello intellettuale e spirituale. Gesù stesso dedica una ventina d'anni al primo (supposto che abbia incominciato a lavorare verso i tredici anni) e solo un paio di anni al secondo.

Un laico ha scritto: "Che senso e che valore ha il nostro lavoro di laici davanti a Dio? È vero che noi laici ci dedichiamo anche a tante opere di bene (carità, apostolato, volontariato); però la maggior parte del tempo e delle energie della nostra vita dobbiamo dedicarle al lavoro. Quindi, se il lavoro non vale per il cielo, ci troveremo ad avere ben poco per l'eternità. Tutte le persone che abbiamo interpellato non hanno saputo darci risposte soddisfacenti. Ci dicono: 'Offrite tutto a Dio!'. Ma basta questo?"

Rispondo: No, il lavoro non vale solo per la "buona intenzione" che si mette nel farlo, o per l'offerta che se ne fa a Dio al mattino; vale anche per se stesso, come partecipazione all'opera creatrice e redentrice di Dio e come servizio ai fratelli. "Con il lavoro, si legge in un testo del Concilio, l'uomo abitualmente provvede alle condizioni di vita proprie e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione. Ancor più: sappiamo per fede, che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l'uomo si associa all'opera stessa redentiva di Cristo" (Gaudium et >Spes, 67).

Non importa tanto che lavoro uno fa', quanto come lo fa. Questo ristabilisce una certa parità, al di sotto di tutte le differenze (a volte ingiuste e scandalose) di categoria e di rimunerazione. Una persona che ha svolto mansioni umilissime nella vita, può "valere" molto di più di chi ha occupato posti di grande prestigio.

Il lavoro, si diceva, è partecipazione all'azione creatrice di Dio e all'azione redentrice di Cristo ed è fonte di crescita personale e sociale, ma esso, si sa, è anche è fatica, sudore, pena. Può nobilitare, ma può anche svuotare e logorare. Il segreto è mettere il cuore in quello che fanno le mani. Non è tanto la mole o il tipo di lavoro esercitato che stanca, quanto la mancanza di entusiasmo e di motivazione. Alle motivazioni terrene del lavoro, la fede ne aggiunge una eterna: le nostre opere, dice l'Apocalisse, ci seguiranno (Ap 14,13)

sabato 6 novembre 2010

domenica 7 novembre

Omelia di don Marco Pedron  

Ognuno avrà ciò che lui vorrà
Lc 20,27-38



La pagina del vangelo di oggi è un po' difficile per noi, strana, ostica, perché è lontana dalla nostra cultura e dal nostro linguaggio.
La controversia è con i Sadducei, che rappresentavano l'aristocrazia sacerdotale: erano razionalisti e non credevano alla resurrezione. Qui vengono per deriderlo, per metterlo alla prova, per prenderlo in giro ma sarà Gesù stesso a ridere della loro banale questione. Chi agisce come i Sadducei avrà lo stesso trattamento perché sempre la vita ti ritorna indietro quello che le dai.
Il caso è proprio buffo, artificioso, comico, strano e grottesco. In effetti, c'era una legge che diceva: "Se una vedova è senza figli maschi può essere sposata dal cognato per avere una discendenza" (Dt 25, 5). Ma qui la cosa è esasperata, ridicola. Riflette la mentalità del tempo dove l'unico modo di sopravvivere era la procreazione: io passo, muoio, ma qualcosa di me continua a vivere. In realtà non si continua a vivere nei figli, si continua a vivere perché si è figli di Dio.
E Gesù che fa? Gesù neppure risponde. Dice: "Voi venite qui per deridermi. Con voi non accetto neppure di discutere. Non parlo di queste cose con voi. Quello che dite dimostra quanto ristretti di mente siete".

Bisogna stare attenti perché alcune frasi possano (lo sono state!) essere mal interpretate. Ad esempio: "Quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della resurrezione dai morti, non prendono moglie né marito". Oppure: "Perché sono uguali agli angeli". Se non si è attenti qualcuno potrebbe sentirle come un disprezzo della sessualità o che nell'aldilà saremo asessuati. Saremo come angeli non perché asessuati ma perché non avremo più bisogno di morire. Ciò che qui si vuol dire è che in cielo ci sarà un altro modo di stare insieme non più vincolato dalle leggi del matrimonio e della nascita. Ci sarà un amore e un'unione con tutto e con tutti che oggi non possiamo capire.

Gesù superando la banale questione dei Sadducei dà due risposte.
La prima: non è possibile prendere gli stessi criteri che abbiamo di qua per parlare dell'aldilà. Tutto quello che diciamo sono ipotesi, sillabe, allusioni, parabole, immagini. I Sadducei prendono le immagini che hanno per parlare dell'aldilà. Ogni religione fa così: fuoco, latte e miele, pascoli, luce, verdi prati. E' come se un bambino nel grembo della madre dovesse descrivere il cielo, il mare, un fiore, le facce. Come potrebbe descrivere il volto del papà o della mamma? Impossibile, non può.
Noi non sappiamo come sarà l'aldilà. Abbiamo dei pre-sentimenti, delle intuizioni, dei segnali, delle tracce, delle orme. Sarà fioritura: guardo la natura, le stagioni, i fiori e le piante. Tutto muore in autunno, ma poi viene la primavera e tutto rinasce a vita nuova. La vita non muore mai. Sarà trasformazione, pienezza, realizzazione. Guardo al seme: una cosa così piccola quando la pianto e poi così enorme, sviluppata, feconda. E' lo stesso seme che si trasforma in albero. Sarà amore. Quando si ama si tocca l'eterno, l'infinito. Quando uno mi ama è come se mi dicesse: "Tu non morrai perché ci sono io". L'amore per sua natura vorrebbe essere eterno, senza fine. Sarà unità. Quando ci si ama ci si sente uniti, si sente che niente ci potrà dividere. Sarà così. La resurrezione sta a questa vita come l'albero al seme o il bambino al feto: la stessa cosa; tutta un'altra cosa.
Allora attenzione perché in realtà non possiamo dire niente, non possiamo immaginarcelo, descriverlo. Immagini come il tunnel del grande passaggio; il fuoco dell'inferno; gli angeli con le ali; Adamo, Eva, l'Eden e il giardino; i tormenti; il diavolo con le corna; i tre luoghi paradiso-purgatorio-inferno e quant'altro sono tutti frutti del nostro tentativo di dire qualcosa che non si può dire. Tutte le immagini dicono delle emozioni, delle condizioni, ma non dicono come sarà.
Al giorno d'oggi (ci sono sempre state!) ci sono molte persone che hanno percezioni del futuro: mettono in contatto le persone con chi è nell'aldilà (medium), sanno predire certi eventi; altre sono assai interessate a questioni sulla fine dei tempi, alla vita oltre la morte, al destino delle anime. Nei secoli passati c'era il problema dei bambini non battezzati: dove andranno? Non hanno colpe, ma non sono battezzati! Così si trovò la situazione intermedia del limbo. Credo che chi non riesce a vivere il presente debba fuggire nel futuro. Tu sei figlio di Dio. Non ti basta questo? Se puoi percepire chi sei (tu sei figlio dell'Altissimo), di cosa devi preoccuparti? Tu sei figlio della resurrezione: se sei certo di questo allora vivi il presente perché non temi più il futuro. Ma chi teme il futuro non può vivere il presente.

La seconda risposta: c'è un aldilà e Gesù lo fonda sul rapporto di amicizia che ha avuto con alcune persone.
Dice: "Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi" e poi ancora: "Il Dio di Abramo, d'Isacco, di Giacobbe". Queste sono persone che hanno amato il Signore: creature amiche di Dio, fedeli. Con queste persone Dio ha stabilito un legame di amicizia, di amore, di speranza. Dio poiché è il Dio dei vivi non spezza questi rapporti perché Dio è il Fedele.
Per cui la fede nella resurrezione è appoggiarsi a questa fedeltà, alla Sua fedeltà. Chi si appoggia a Lui è come un ramo su una pianta: anche se muore non si spezza, non si stacca. Fidati. Come un amico si poggia su di un altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo sulla mamma, così io mi appoggio a Dio. Dio è colui che non abbandona.
Sperimento ogni giorno che Lui è il Fedele. Anche se sbaglio, anche se mi allontano un po' da Lui, anche se in certi giorni non accetto ciò che Lui mi propone, anche se a volte io gli sono infedele e lo tradisco (che poi è nient'altro che tradire me stesso), Lui rimane. Lui è una roccia (hesed=amore fedele): Lui è il granito; Lui è la mano che non si stacca, che non se ne va, che mi tiene forte e che non mi lascia.
Non so con esattezza cosa voglia dire resurrezione, ma so che Lui è Vita, è l'Amico, l'Amore, Colui che non lascia chi lo ama, Colui che non mi abbandona e questo mi basta. Io mi affido a Lui e so che non mi lascerà cadere nel buio. Se la mia vita è appoggiata su di Lui durerà per sempre, perché Dio è per sempre. Mi fido e non temo.
Un mistico islamico, Al-Ghazzali, (i musulmani hanno Abramo come padre della fede) dice: "Abramo, quando l'angelo della morte venne per impadronirsi del suo spirito, disse: «Hai mai visto un amico desiderare la morte di un amico?». (Ora, Dio amico di Abramo può desiderare la morte di Abramo?). E il Signore gli rispose: «Hai mai visto l'amante rifiutare l'incontro con l'amato?». E Abramo disse: «Angelo della morte, prendimi»".
Se Dio in questa vita l'abbiamo conosciuto, l'abbiamo incontrato, l'abbiamo fatto diventare centro della nostra vita, se è diventato il nostro amore non c'è alcun motivo di temere perché l'incontro tra me e Lui è l'incontro tra l'amato e l'amante.
Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, alieno alla nostra vita allora sì che avremo tanta, ma tanta paura: "Una paura da morire!".

Molti di noi hanno la pretesa e il desiderio di sapere cosa c'è di là. Io vorrei avere dei segni, delle certezze; vorrei vedere l'al di là; vorrei sapere cosa faremo, chi ci sarà, se qualcuno non ci sarà, vorrei sapere di cosa vivremo e come vivremo; vorrei sapere se rivedrò i miei cari, se tutto sarà luce; vorrei sapere come sarà il nostro corpo. E' il mio bisogno di controllare, di avere tutto sotto controllo, di detenere io la situazione. E invece Lui mi chiede di abbandonare il controllo e semplicemente di fidarmi: "Io ti amo. Guarda bene nella tua vita e vedrai quanto ti amo. Ma come potrei, visto che ti amo così tanto, abbandonarti? Se mi conosci, di cosa vuoi avere paura? Se sai chi sono non temerai nulla". Conoscere le cose ci rassicura: il noto non lo temiamo, è l'ignoto che ci fa paura. Sapere il posto dove si andrà ci dà modo di avere tutto sotto controllo. E avere tutto sotto controllo vuol dire non aver paura. Ma sono io che controllo. E' come dire: "Mi fido di me. Lo conosco quel posto, so che ci posso andare, so cosa mi aspetta".
Ma controllare non è fidarsi. L'amore è qualcosa di più. L'amore è fidarsi e andare. Non perché si conosce dove si andrà ma perché si conosce chi ci ama.
Un giorno ci hanno fatto fare questo esercizio: eravamo in montagna, in un luogo anche abbastanza dissestato, con rami, sassi e quant'altro. Ci hanno bendato e un compagno ci conduceva. Tu non dovevi fare niente, dovevi solo fidarti e lasciarti portare. All'inizio è stato molto difficile. Ma quando uno si fidava tutto era meraviglioso: non c'era più niente da aver paura perché un angelo era con te e ti conduceva, ti proteggeva, ti sosteneva, ti diceva dove andare e dove non andare. Potersi fidare di qualcuno e abbandonarsi è meraviglioso. Ci si sente al sicuro, protetti, non c'è più niente di cui aver paura. In certi giorni mi sento così: non vedo l'angelo che mi conduce, ma sento che Lui mi porta. E non è più importante dove si va perché ciò che conta è solo che Lui ci sia.
Tanti anni fa alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di fidarmi e di lasciarmi portare. Non era il mio compleanno, non c'era qualche occasione speciale, non c'era un motivo preciso. Non è che mi fidassi molto, anzi, siccome non sapevo e non capivo il senso della cosa, avevo assai paura, facevo un sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non avevo la più pallida idea di dove saremmo andati. Quando mi tolsero la benda c'era una grande candela e tutti i miei amici attorno. Volevano solo fare una grande festa per me. È stato commovente. Quando andremo di là sarà così: avremo tanta paura, ma sarà una grande festa. Quando andremo di là sarà molto di più e molto diverso da come anche lontanamente ci aspettiamo o possiamo anche solo lontanamente pensare. E' inutile pensarci; è inutile farsi idee; è inutile voler sapere. Sarà una grande festa, enorme, con tutti gli amici, con tutto ciò che c'è di caro.
Tutto sarà compiuto, tutto sarà in pienezza. Pensate alla relazione tra un seme e l'albero corrispondente: sono la stessa cosa eppure sono totalmente diversi. Sarà così: questa vita è un seme ma nel seme è già racchiuso l'albero e l'eternità. Nessuno da questa prospettiva può dire come sarà, ma sarà pienezza, fecondità, frutti, sviluppo.
Lao-Tse dice: "Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo chiama farfalla". Allora: la morte è fine da questa sponda ma inizio dall'altra sponda. Quando cambi di casa è un inizio o una fine? Tutte e due, dipende! E' sia fine che inizio. E poi ciò che ci fa paura è in realtà meraviglioso. Il bambino è traumatizzato dalla nascita e invece non sa che quel passaggio così difficile è la sua salvezza e l'inizio di una stupenda avventura tra le braccia accoglienti, calde, protettive e amorevoli della madre. Sarà così. Un trauma e un sacco di paura, ma nello stesso tempo la meraviglia più grande che ci potrà capitare.

Molte persone credono che l'inferno o il paradiso sia un po' come un terno al lotto: non possiamo fare nulla e speriamo che ci vada bene! Ma l'inferno e il paradiso ce lo costruiamo noi. L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi; è nelle nostre mani. E quando andremo di là Dio non farà nient'altro che confermare le nostre scelte o quello che noi vogliamo.
Ci dirà: "Cosa vuoi? Scegli e io per amore ti darò ciò che tu vuoi!".
"Ma tutti vogliono il paradiso!". "Lo dici tu!". Facciamo degli esempi.
Un uomo è attaccato morbosamente al denaro. Ha un sacco di soldi ma quando esce è attento anche al centesimo, e guai se qualcuno in compagnia paga meno di lui. E' così taccagno e avaro che vive nella paura che gli altri se ne approfittino di lui. Tutto ruota attorno a non spendere. Lo sa di essere così, ma continua ad esserlo. Si è creato il suo inferno e si è chiuso dentro.
Un altro ha un legame morboso con la propria moglie. Quando lei non c'è arriva a soffrire, a diventare geloso di tutti e di tutto, perfino degli amici e dei parenti. Se fosse per lui lei non potrebbe neppure uscire di casa: sa di essere così ma non fa niente per uscirne, si è creato il suo inferno e ci rimarrà dentro.
Un'altra donna non riesce a concedere al marito un momento di pausa nel rapporto. Lei è sempre stata soffocante, asfissiante, col fiato sempre sul collo. Lei gli era sempre dietro, sempre presente: una sanguisuga. Allora lui si è preso una pausa di riflessione perché così non si poteva andare avanti: era come essere in carcere. Ma lei lo chiama ad ogni ora; vive nella disperazione di rimanere da sola (ecco perché gli stava sempre addosso!); è disponibile a tutto pur di tornare insieme. Sa di aver bisogno di lui in maniera ossessiva perché non riesce a stare da sola. Più che lui, ama il rapporto (quante persone non amano te ma il rapporto: stanno con te perché temono di stare da sole!). Si è creata una situazione infernale ma non fa niente per uscirne. Non è lui il problema; è lei che ha un bisogno disperato di amore e di stare con lui. Un detto dice: "Se ami qualcuno, lascialo andare: se torna, è tuo, se non torna, non è mai stato tuo".
Un'altra donna vive un rapporto di coppia che potremmo definire un rapporto di servitù. Lei fa tutto, lo serve in tutto; è come una madre con il suo bambino (è che questo bambino ha quarant'anni anni ed è suo marito!!!). Il marito sa che così non si può andare avanti; sa che dovrebbe iniziare a piantarla dura. Ma ha paura di cosa la situazione provocherà, di cosa si scatenerà. Così ha deciso di lasciar tutto così. Si è creata il suo inferno. Ha scelto questo.
Un uomo ha capito perché lui corre sempre, perché non riesce mai a non far niente, perché è iperattivo: dentro ha un vuoto d'amore enorme. Sa che il giorno che si fermerà o il giorno che vorrà conoscersi dovrà fare i conti con questa sua storia familiare, così senza amore. Allora corre, parla, sempre e non sta mai "con le mani nelle mani". Questo lo fa passare agli occhi degli altri per un grande lavoratore, ma lui sa la verità. Ma ha deciso di non fermarsi. Si è scelto l'inferno perché vivere così è vivere sempre nell'ansia e nel timore. Sa che c'è una mina dentro di sé pronta ad esplodere ma decide di non considerarla.
C'è una coppia che vive nella stessa casa e nello stesso letto ma insieme non c'è altro. Si ignorano, si odiano, neppure si guardano. Siccome sono giovani il rapporto si potrebbe recuperare, ma dovrebbero permettere a qualcuno di aiutarli. Ma non vogliono perché "i panni sporchi si lavano in casa". E allora state male e non lamentatevi! Hanno scelto l'inferno di vivere così.
Una donna ha detto: "Mio marito fa della mia vita un inferno". "Vorrà dire che dovrai andartene da quella casa!". " Ma poi rimango da sola!". "Vorrà dire che dovrai imparare a vivere anche rimanendo sola".
Nessuno ha mai detto che sia facile scegliere il paradiso. Scegliere il bene vuol dire crescere, prendere in mano la propria vita e smettere di delegare agli altri (Dio compreso).
Sembra impossibile eppure molti di noi preferiscono in questa vita l'inferno. Per me allora è molto importante quella frase: "Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi". Scegli la vita! Scegli il paradiso! Scegli l'amore!
Dio non vuole che tu ti sacrifichi e che distrugga la tua vita. Dio non vuole che nessun uomo si annienti o si annulli, che nessun uomo perda se stesso per qualcun altro. Mai. Dio non è il Dio della morte.
Dio è il Dio della vita e vuole per tutti che si viva e che si viva in pienezza, che si viva sviluppandosi, crescendo e che si raggiunga la massima vitalità possibile. Dio è il Dio dei vivi. Quando le persone dicono: "Ma Dio non vuole che ci annulliamo per gli altri?". "Sì, il Dio dei morti vuole proprio così". Ma non il Dio di Gesù.
C'è una storia che racconta questo. Un giorno, un grande e valoroso guerriero andò a trovare un saggio perché voleva sapere quale strada doveva intraprendere per raggiungere il paradiso e quale rifuggire perché conduceva all'inferno. Il saggio lo guardò e gli chiese chi fosse. L'altro, molto orgoglioso di sé, gli rispose di essere il più grande e valoroso guerriero del suo paese. Il saggio si mise a ridere, provocando una grossa irritazione nel guerriero che si sentì denigrato, al punto da estrarre la spada pronto a colpire il saggio. Questi lo guardò e gli disse: "Questa è la strada che ti conduce all'inferno. Con il tuo orgoglio e la tua ira tu stai per imboccarla". Il guerriero si fermò, riflettè e ripose la spada nel fodero. Il saggio gli sorrise e gli disse: "Ora tu hai imboccato la strada del paradiso".

L'inferno e il paradiso in questa vita è nelle nostre mani e soprattutto nelle nostre scelte. Scegli la felicità, scegli il paradiso, scegli la vita, scegli il tuo bene, scegli Dio. Dio non ha creato l'inferno e il paradiso. Dio ha creato l'uomo libero di scegliere il paradiso e l'inferno. E Dio, che ama l'uomo, darà a ciascuno ciò che ognuno sceglierà.

Pensiero della settimana
Inferno è essere pieni d'amore e non riuscire ad amare. Inferno è essere in balia dei propri demoni interiori.

venerdì 22 ottobre 2010

mandato operatori pastorali 2010/2011


domenica 17 ottobre 2010 

S. Messa con Mandato 
a tutti gli Operatori Pastorali 
della Parrocchia di S. Onofrio Anacoreta



sabato 2 ottobre 2010

sabato 17 aprile 2010

III Domenica di Pasqua (anno C)

Domenica 18 Aprile > (Bianco) III DOMENICA DI PASQUA (ANNO C)


letture:

At 5,27-32.40-41
Sal 29 "Ti esalterò Signore perchè mi hai risollevato"
Ap 5,11-14
Gv 21,1-19:
Viene Gesù, prende il pane e lo dà loro, così pure il pesce


Omelia di mons. Vincenzo Paglia
sul Vangelo di questa domenica


In quella notte non presero nulla.

"In quella notte non presero nulla", scrive l'evangelista. É l'amara esperienza di Pietro, Tommaso, Natanaele, i figli di Zebedeo e altri due discepoli (sette in tutto, simbolo dell'universalità, primo seme della Chiesa), dopo una faticosa notte di pesca. Un'esperienza non dissimile da quella di tanti uomini e di tante donne, di tanti giorni e di tante notti: non producono nulla. La "notte", in questi casi, non è solo una notazione temporale, è segno dell'assenza del Signore e del conseguente smarrimento. All'alba un uomo si fece accanto alla stanchezza degli apostoli e incontrò la loro fatica e la loro delusione; la vicinanza di Gesù, non importa se riconosciuto o no, comportò la fine della notte e, quel che conta, l'inizio di un nuovo giorno, di una nuova vita. Egli chiese se avevano del pesce da mangiare; ma quei sette furono costretti a confessare tutta la loro povertà e impotenza. Gesù, che peraltro non avevano ancora riconosciuto, con amicizia autorevole li invitò a cercare altrove: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". Quei sette uomini accolsero l'invito e, senza opporre resistenza alcuna, sebbene fosse più che ragionevole esprimerla, obbedirono: la pesca fu grande, miracolosa, oltre ogni misura. Di fronte a questa esperienza di fecondità e di gioia, uno dei discepoli, quello che Gesù amava, riconobbe la voce e disse agli altri: "E' il Signore!" Ancora una volta, per bocca del discepolo, risuonava agli apostoli l'annuncio della Pasqua, la vittoria del Signore sulla morte. Simon Pietro, nel sentire la vicinanza del Signore, comprese tutta la sua indegnità; si cinse subito i fianchi con una veste, era infatti nudo, si gettò nel lago e corse a nuoto verso Gesù. Gli altri, invece, vennero dietro con la barca trascinando la rete piena di pesci. A questo punto il Vangelo presenta una scena conviviale, piena di tenerezza: tutti erano insieme attorno ad un fuoco di brace con del pesce sopra e del pane, preparato da Gesù. Nessuno osava domandargli nulla; rimasero senza parole, come quando veniamo superati dall'amore e dalla tenerezza. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli. Per noi è la terza domenica che ci ritroviamo nella liturgia domenicale attorno all'invito che Gesù stesso ci rivolge, come fece allora ai suoi: "Venite a mangiare". Oggi, come allora, vediamo ripetersi la stessa scena e sentiamo le medesime parole di Gesù: "Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro". E' una scena a suo modo scarna, eppure colma di domande, soprattutto di una domanda: quella che Gesù, proprio all'alba del giorno, rivolse a Simon Pietro. Non era una domanda sul passato, o sulle delusioni; e neppure sulle non poche paure. Gli chiese solamente: "Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?". Gesù interpellò Pietro sull'amore. Non gli ricordò il tradimento di qualche giorno prima; l'amore infatti copre un gran numero di peccati. E Pietro, che pure si era vergognato davanti a lui e gli era corso incontro, prontamente rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". Era una risposta più vera di quella che aveva dato quel giovedì sera al cenacolo quando disse a Gesù: "Per te sono disposto ad andare fino alla prigione e alla morte" (Lc 22, 33). Ora, la risposta era più vera, più umana. E, a lui che non meritava nulla, Gesù disse: "Pasci i miei agnelli"; sii responsabile degli uomini e delle donne che ti affido. Proprio Pietro che aveva mostrato di non essere in grado di restare fedele, doveva essere il responsabile? Proprio lui? Si, perché ora Pietro accoglieva l'amore che Gesù stesso gli donava; e nell'amore si diviene capaci di parlare, di testimoniare, di prendersi cura degli altri. Gesù non lo interrogò una volta sola sull'amore, ma tre volte, ossia sempre. Ogni giorno ci viene chiesto se amiamo il Signore. Ogni giorno, ci viene affidata la cura degli altri. L'unica forza, l'unico titolo, che ci permette di vivere è l'amore per il Signore. Gesù disse ancora a Pietro: "Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi". Pietro forse ricordò la sua giovinezza di pescatore a Cafarnao, quando si alzava presto per andare a pescare, quando usciva di casa per girare dove voleva, forse anche le sue delusioni e magari anche il luogo dove incontrò per la prima volta Gesù. Mentre gli tornavano in mente questi ricordi, Gesù aggiunse: "Quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi". Pietro, come ogni credente, non sarà lasciato solo: quell'amore sul quale siamo interrogati impegna il Signore prima che noi. E' lui infatti che ci ha amati per primo e mai più ci abbandonerà, anche quando "un altro ci cingerà la veste e ci porterà dove noi non vorremmo". Quel che conta è la fedeltà a quella scena sulla riva del lago, che ogni domenica si ripete per noi; quella scena ha un sapore di eternità.

sabato 10 aprile 2010

II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia (anno C)


II DOMENICA DI PASQUA o della Divina Misericordia (ANNO C)
(colore Bianco)

I Lettura
At 5,12-16 Venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne.
Salmo
(Sal 117) Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
II Lettura
Ap 1,9-11.12-13.17-19 Ero morto, ma ora vivo per sempre.
Vangelo
Gv 20,19-31 Otto giorni dopo venne Gesù.



Omelia di padre Ermes Ronchi (sul vangelo di oggi)

Quella pace che sgorga dalle ferite


Venne Gesù, a porte chiuse. C'è aria di paura in quella ca­sa, paura dei Giudei, ma anche e soprattutto paura di se stessi, di come lo ave­vano abbandonato, tradito, rinnegato così in fretta.
Eppure Gesù viene. L'ab­bandonato ritorna da quel­li che sanno solo abbandonare, il tradito si mette di nuovo nelle mani di chi lo ha tradito.
«E sta in mezzo a loro». Ec­co da dove nasce la fede cri­stiana, dal fatto che Gesù sta lì, dal suo esserci qui, vi­vo, adesso. Il ricordo, per quanto appassionato, non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola di pensiero. La fede nasce da una presenza, non da una rievocazione.
«Venne Gesù e si rivolge a Tommaso» Nel piccolo gregge cerca proprio colui che dubita: «Metti qua il tuo dito, stendi la tua mano, tocca!». Ecco Gesù: non si scandalizza di tutti i miei dubbi, non si impressiona per la mia fatica di credere, non pretende la mia fede piena, ma si avvicina a me. A Tommaso basta questo gesto. Chi si fa vicino, ten­de le mani, non ti giudica ma ti incoraggia, è Gesù. Non ti puoi sbagliare!
Tommaso si arrende. Si ar­rende alle ferite che Gesù non nasconde, anzi esibisce:
il foro dei chiodi, tocca­lo; lo squarcio nel fianco, puoi entrarci con una ma­no;
piaghe che non ci sa­remmo aspettati, pensava­mo che la Risurrezione a­vrebbe cancellato, rimargi­nato e chiuso le ferite del Venerdì Santo.
E invece no! Perché la Pa­squa non è l'annullamento della Croce, ma ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza. Le ferite sono l'alfabeto del suo amore.
Il Risorto non porta altro che le ferite del Crocifisso, da esse non sgorga più sangue, ma luce. Porta l'oro delle sue ferite. Penso alle ferite di tanta gente, per de­bolezza, per dolore, per di­sgrazia. Nelle ferite c'è l'o­ro. Le ferite sono sacre, c'è Dio nelle ferite, come una goccia d'oro.
Ciascuno può essere un guaritore ferito. Proprio quelli che parevano colpi duri o insensati della vita, ci hanno resi capaci di comprendere altri, di veni­re in aiuto. La nostra debo­lezza diventa una forza. Co­me dice Isaia: guarisci altri e guarirà presto la tua feri­ta, illumina altri e ti illumi­nerai.
Tommaso si arrende alla pace, la prima parola che da otto giorni accompagna il Risorto: Pace a voi! Non un augurio, non una sem­plice promessa, ma una affermazione: la pace è qui, è in voi, è iniziata. Quella sua pace scende ancora sui cuori stanchi, e ogni cuore è stanco, scende sulla no­stra vicenda di dubbi e di sconfitte, come una bene­dizione immeritata e felice

sabato 3 aprile 2010

domenica - Pasqua di Resurrezione


"Il Signore è davvero risorto. Alleluia!
A lui gloria e potenza nei secoli eterni!"

Sfolgora il sole di Pasqua,

risuona il cielo di canti,
esulta di gioia la terra.

Dagli abissi della morte
Cristo ascende vittorioso
insieme agli antichi padri.

Accanto al sepolcro vuoto
invano veglia il custode:
il Signore è risorto.

O Gesù, re immortale,
unisci alla tua vittoria
i rinati nel battesimo.

Irradia sulla tua Chiesa,
pegno d'amore e di pace,
la luce della tua Pasqua.

Sia gloria e onore a Cristo,
al Padre e al Santo Spirito
ora e nei secoli eterni. Amen.

dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20, 1-9)
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.


Omelia di mons. Vincenzo Paglia
"Egli doveva resuscitare dai morti"

Siamo arrivati alla Pasqua dopo aver seguito Gesù nei suoi ultimi giorni di vita. Abbiamo agitato con gioia i rami di ulivo, domenica scorsa, per accoglierlo mentre entrava in Gerusalemme. Lo abbiamo quindi seguito negli ultimi tre giorni: ci ha accolti al cenacolo, con un desiderio struggente di amicizia, tanto da abbassarsi sino a lavare i piedi e donarsi come pane «spezzato» e sangue «versato». E poi ci ha voluti ac­canto a sé nell'orto degli Ulivi, quando la tristezza e l'angoscia gli opprimevano il cuore tanto da sudare sangue. Il bisogno di amicizia fattosi ancor più prepotente non fu capito; i tre più amici, prima si addormentarono, e poi, assieme a tutti gli altri, lo abbandonarono. Il giorno dopo lo troviamo in croce, solo e nudo; le guardie lo avevano spogliato della tunica; in verità lui stesso si era già spogliato della vita. Davvero ha dato tutto se stesso per la nostra salvezza. Il sabato è stato triste; un giorno vuoto anche per noi. Gesù stava oltre quella pietra pesante. Eppure, anche senza vita, ha come continuato a donarla «scendendo agli inferi», ossia nel punto più basso possibile: ha voluto portare sino al limite estremo la sua solidarietà con gli uomini. Il vangelo di Pasqua parte proprio da questo estremo limite, dalla notte buia. Scrive l'evangelista Giovanni che «era ancora buio» quando Maria di Magdala si recò al sepolcro. Era buio fuori, ma soprattutto dentro il cuore di quella donna (come nel cuore di chiunque altro che amava quel profeta che «aveva fatto bene ogni cosa»); il buio per la perdita dell'unico che l'aveva capita: non solo le aveva detto cosa aveva nel cuore, soprattutto l'aveva liberata da ciò che l'opprimeva più di ogni altra cosa (scrive Marco che era stata liberata da sette demoni). Con il cuore triste Maria si recava al sepolcro. Forse ricordava i giorni precedenti la passione, quando gli asciugava i piedi dopo averglieli bagnati con unguento prezioso, e gli anni, pochi ma intensi, passati con quel profeta. Con Gesù l'amicizia è sempre affascinante; si potrebbe dire che quest'uomo non lo si può seguire da lontano, come ha fatto Pietro in questi giorni. Arriva il momento della resa dei conti e quindi della scelta di un rapporto definitivo. L'amicizia di Gesù è di quella specie che porta a considerare gli altri più di se stessi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,12). Maria di Magdala lo constata di persona quel mattino quand' è ancora buio. Il suo amico è morto perché ha voluto bene a lei e a tutti i discepoli, Giuda compreso. Appena giunta al sepolcro ella vede che la pietra posta sull'ingresso, una lastra pesante come ogni morte e ogni distacco, è stata ribaltata. Neppure entra. Corre subito da Pietro e da Giovanni: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro!», grida, trafelata. Neanche da morto, pensa, lo vogliono. E aggiunge con tristezza: «Non sappiamo dove l'abbiano messo». La tristezza di Maria per la perdita del Signore, anche solo del suo corpo morto, è uno schiaffo alla nostra freddezza e alla nostra dimenticanza di Gesù anche da vivo. Oggi, questa donna è un alto esempio per tutti i credenti. Solo avendo i suoi sentimenti nel cuore è possibile incontrare il Signore risorto. È lei e la sua disperazione a muovere Pietro e l'altro discepolo che Gesù amava. Essi «corrono» immediatamente verso il sepolcro vuoto; dopo aver iniziato assieme a seguire il Signore, sebbene da lontano, nella passione (Gv 18,15-16), ora si trovano a «correre entrambi» per non stargli lontano. È una corsa che esprime bene l'ansia di ogni discepolo, di ogni comunità, che cerca il Signore. Anche noi forse dobbiamo ri­prendere a correre. La nostra andatura è diventata troppo lenta, forse appesantita dall'amore per noi stessi, dalla paura di scivolare e perdere qualcosa di nostro, dal timore di dover abbandonare abitudini ormai sclerotiche. Bisogna riprovare a correre, lasciare quel cenacolo dalle porte chiuse e andare verso il Signore. La Pasqua è anche fretta. Giunse per primo alla tomba il discepolo dell'amore: l'amore fa correre più veloci. Ma anche il passo più lento di Pietro portò l'apostolo sulla soglia della tomba; e ambedue entrarono. Pietro per primo, e osservò un ordine perfetto: le bende stavano alloro posto come svuotate del corpo di Gesù e il sudario «piegato in un angolo a parte». Non c'era stata né manomissione né trafugamento: Gesù si era come liberato da solo. Non fu necessario per lui sciogliere le bende come per Lazzaro. Anche l'altro discepolo entrò e «vide» la stessa scena: «Vide e credette», nota l'evangelista. Si erano trovati davanti ai segni della risurrezione e si lasciarono toccare il cuore. Fino ad allora infatti - prosegue l'evangelista - «non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli doveva risuscitare dai morti». Questa è spesso la nostra vita: una vita senza risurrezione e senza Pasqua, rassegnata di fronte ai grandi dolori e ai drammi degli uomini, rinchiusa nella tristezza delle proprie abitudini. La Pasqua è venuta, la pietra pesante è stata rovesciata e il sepolcro si è aperto. Il Signore ha vinto la morte e vive per sempre. Non possiamo più starcene chiusi come se il Vangelo della risurrezione non ci sia stato comunicato. Il Vangelo è risurrezione, è rinascita a vita nuova. E va gridato sui tetti, va comunicato nei cuori perché si aprano al Signore. Questa Pasqua perciò non può passare invano; non può essere un rito che più o meno stancamente si ripete uguale ogni anno; essa deve cambiare il cuore e la vita di ogni discepolo, di ogni comunità cristiana. Si tratta di spalancare le porte al Risorto che viene in mezzo a noi, come leggeremo nei giorni prossimi durante le apparizioni ai discepoli. Egli deposita nei cuori il soffio della risurrezione, l'energia della pace, la potenza dello Spirito che rinnova. Scrive l'apostolo Paolo: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). La nostra vita è come coinvolta in Gesù risorto e resa partecipe della sua vittoria sulla morte e sul male. Assieme al Risorto entrerà nei nostri cuori il mondo intero con le sue attese e i suoi dolori, com'egli manifesta ai discepoli le ferite presenti ancora nel suo corpo, perché possiamo cooperare con lui alla nascita di un cielo nuovo e una terra nuova, ove non c'è né lutto né lacrima, né morte né tristezza perché Dio sarà tutto in tutti.


Cantate al Signore un canto nuovo; *
la sua lode nell'assemblea dei fedeli.
Gioisca Israele nel suo Creatore, *

esultino nel loro Re i figli di Sion.

Lodino il suo nome con danze, *

con timpani e cetre gli cantino inni.

Il Signore ama il suo popolo, *

incorona gli umili di vittoria.

Esultino i fedeli nella gloria, *

sorgano lieti dai loro giacigli.


O Padre, che in questo giorno, per mezzo del tuo unico Figlio, hai vinto la morte e ci hai aperto il passaggio alla vita eterna, concedi a noi, che celebriamo la Pasqua di Risurrezione, di essere rinnovati nel tuo Spirito, per rinascere nella luce del Signore risorto. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

venerdì 2 aprile 2010

sabato santo


"Venite, adoriamo il Signore, crocifisso e sepolto per noi"


Da un'antica «Omelia sul Sabato santo»
Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.
Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.
Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.
Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura.
Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta.
Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all'albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire. Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell'inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.
Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio.
Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l'eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

giovedì 1 aprile 2010

venerdì santo


"Venite, adoriamo Cristo, il Figlio di Dio:
con il suo sangue ci ha redenti"

Ecco il vessillo della croce,
mistero di morte e di gloria:
l'artefice di tutto il creato
è appeso ad un patibolo.
Un colpo di lancia trafigge
il cuore del Figlio di Dio:
sgorga acqua e sangue, un torrente
che lava i peccati del mondo.
O albero fecondo e glorioso,
ornato d'un manto regale,
talamo, trono ed altare
al corpo di Cristo Signore.

O croce beata che apristi
le braccia a Gesù redentore,
bilancia del grande riscatto
che tolse la preda all'inferno.
Ave, o croce, unica speranza,
in questo tempo di passione,
accresci ai fedeli la grazia,
ottieni alle genti la pace. Amen.

Dalle «Catechesi» di san Giovanni Crisostomo, vescovo

Vuoi conoscere la forza del sangue di Cristo?
Considera da dove cominciò a scorrere e da quale sorgente scaturì. Fu versato sulla croce e sgorgò dal costato del Signore. A Gesù morto e ancora appeso alla croce, racconta il vangelo, s'avvicinò un soldato che gli aprì con un colpo di lancia il costato: ne uscì acqua e sangue. L'una simbolo del Battesimo, l'altro dell'Eucaristia. Il soldato aprì il costato: dischiuse il tempio sacro, dove ho scoperto un tesoro e dove ho la gioia di trovare splendide ricchezze. La stessa cosa accade per l'Agnello: i Giudei sgozzarono la vittima ed io godo la salvezza, frutto di quel sacrificio.
E uscì dal fianco sangue ed acqua (cfr. Gv 19, 34). Carissimo, non passare troppo facilmente sopra a questo mistero. Ho ancora un altro significato mistico da spiegarti. Ho detto che quell'acqua e quel sangue sono simbolo del battesimo e dell'Eucaristia. Ora la Chiesa è nata da questi due sacramenti, da questo bagno di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito santo per mezzo del Battesimo e dell'Eucaristia. E i simboli del Battesimo e dell'Eucaristia sono usciti dal costato. Quindi è dal suo costato che Cristo ha formato la Chiesa, come dal costato di Adamo fu formava Eva.
Similmente come Dio formò la donna dal fianco di Adamo, così Cristo ci ha donato l'acqua e il sangue dal suo costato per formare la Chiesa. E come il fianco di Adamo fu toccato da Dio durante il sonno, così Cristo ci ha dato il sangue e l'acqua durante il sonno della sua morte.
Vedete in che modo Cristo unì a sé la sua Sposa, vedete con quale cibo ci nutre. Per il suo sangue nasciamo, con il suo sangue alimentiamo la nostra vita. Come la donna nutre il figlio col proprio latte, così il Cristo nutre costantemente col suo sangue coloro che ha rigenerato.

mercoledì 31 marzo 2010

giovedì santo


"Quando sarò innalzato da terra, attirerò a me ogni creatura
"

O pane vivo, memoriale
della passione del Signore,
fa' ch'io gusti quanto è soave
di te vivere, in te sperare.

Nell'onda pura del tuo sangue
immergimi, o mio redentore:
una goccia sola è un battesimo
che rinnova il mondo intero.

Fa' ch'io contempli il tuo volto
nella patria beata del cielo
con il Padre e lo Spirito santo
nei secoli dei secoli. Amen.

Dall'«Omelia sulla Pasqua» di Melitone di Sardi, vescovo
Molte cose sono state predette dai profeti riguardanti il mistero della Pasqua, che è Cristo, «al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Gal 1, 5 ecc.).
Egli scese dai cieli sulla terra per l'umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.

Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone.

Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre.
Egli è la Pasqua della nostra salvezza.

Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell'agnello fu sgozzato.
Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.
Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e, risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli.
Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnello senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione.

Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro.

martedì 30 marzo 2010

mercoledì santo


"Quando sarò innalzato da terra, attirerò a me ogni creatutra"

In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi:
egli ha mandato il suo unico Figlio nel mondo,
perché avessimo la vita per mezzo di lui.
Se Dio ci ha amato,
anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.

Dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino, vescovo
Il Signore, o fratelli carissimi, ha definito la pienezza dell'amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri con queste parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Ne consegue ciò che il medesimo evangelista Giovanni dice nella sua lettera: Cristo «ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», (1 Gv 3, 16) amandoci davvero gli uni gli altri, come egli ci ha amato, fino a dare la sua vita per noi. Questo appunto si legge nei Proverbi di Salomone: Quando siedi a mensa col potente, considera bene che cosa hai davanti; e poni mano a far le medesime cose che fa lui (cfr. Pro 23, 1-2). Ora qual è la mensa del grande e del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la vita per noi? E che significa assidersi a questa mensa, se non accostarvisi con umiltà? E che vuol dire considerare bene che cosa si ha davanti, se non riflettere, come si conviene, a una grazia sì grande? E che cosa è questo porre mano a far le medesime cose se non ciò che ho detto sopra e cioè: come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo essere disposti a dare la nostra vita per i fratelli? E` quello che dice anche l'apostolo Pietro: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2, 21). Questo significa fare le medesime cose.
Così hanno fatto con ardente amore i santi martiri e, se non vogliamo celebrare inutilmente la loro memoria, se non vogliamo accostarci infruttuosamente alla mensa del Signore, a quel banchetto in cui anch'essi si sono saziati, bisogna che anche noi, come loro, siamo pronti a ricambiare il dono ricevuto.


lunedì 29 marzo 2010

martedì santo


"Quando sarò innalzato da terra, attirerò a me ogni creatura"

Ascoltate oggi la sua voce:
"Non indurite il cuore,
come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto"

Confida nel Signore e fa’ il bene,
abita la terra e vivi con fede.
Cerca la gioia nel Signore,
esaudirà i desideri del tuo cuore.

Manifesta al Signore la tua via,
confida in lui: compirà la sua opera;
farà brillare come luce la tua giustizia,
come il meriggio il tuo diritto.

Sta’ in silenzio davanti al Signore
e spera in lui;
non irritarti per chi ha successo,
per l'uomo che trama insidie.

Desisti dall'ira e deponi lo sdegno,
non irritarti: faresti del male,
poiché i malvagi saranno sterminati,
ma chi spera nel Signore possederà la terra.


Battezzati in Cristo Gesù, siamo stati immersi nella sua morte.
Uniti a lui nell'immagine della morte, lo saremo anche nella risurrezione.

Dagli scritti di san Basilio Magno, vescovo
La venuta di Cristo nella carne, gli esempi di vita evangelica, le sofferenze, la croce, la sepoltura, la risurrezione sono per la salvezza dell'uomo perché abbia di nuovo, mediante l'imitazione di Cristo, l'adozione a figlio di cui era dotato all'inizio.
Per l'autenticità della vita cristiana è dunque necessario imitare non solo i suoi esempi di dolcezza, di umiltà e di pazienza manifestati durante la vita, ma anche la sua stessa morte. Lo dice san Paolo, imitatore di Cristo: «Divenuto conforme a lui nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,11).
Ma come possiamo renderci conformi alla morte di lui?
Prima di tutto è necessario interrompere il modo di vivere di prima. Ma nessuno può arrivare a tanto se non rinasce di nuovo, secondo le parole del Signore. La rigenerazione, infatti, è l'inizio di una seconda vita. Perciò prima di iniziare una seconda vita, bisogna por fine alla prima. Nel mutamento di vita appare dunque necessario che la morte si interponga tra la prima e la seconda vita, e che questa morte costituisca la fine della condizione precedente e l'inizio di quella futura.
E come dobbiamo morire, cioè compiere la discesa agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo. Infatti i corpi di coloro che vengono battezzati, in certo modo sono sepolti nell'acqua. Perciò il battesimo significa in maniera arcana la deposizione delle opere della carne.
E il battesimo, in certo qual modo, lava l'anima dalle brutture secondo quanto sta scritto: «lavami e sarò più bianco della neve» (Sal 50,9). Per questo motivo noi conosciamo un unico battesimo di salvezza, dal momento che unica è la morte al mondo e unica la risurrezione dei morti, delle quali cose figura è il battesimo.

domenica 28 marzo 2010

lunedì santo


"Quando sarò innalzato da terra, attirerò a me ogni creatura"

Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore, Dio fedele.
Tu detesti chi serve idoli falsi, ma io ho fede nel Signore.
Ma io confido in te, Signore; dico: «Tu sei il mio Dio,
nelle tue mani sono i miei giorni».
Benedetto il Signore, che ha fatto per me meraviglie di grazia
in una fortezza inaccessibile.
Siate forti, riprendete coraggio,
o voi tutti che sperate nel Signore.
Non abbandonate la vostra fiducia. Avete solo bisogno di costanza:
fate la volontà di Dio, e otterrete la promessa.
Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime:
fate la volontà di Dio, e otterrete la promessa.


Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo

La passione del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo è pegno sicuro di gloria e insieme ammaestramento di pazienza.
Che cosa mai non devono aspettarsi dalla grazia di Dio i cuori dei fedeli! Infatti al Figlio unigenito di Dio, coeterno al Padre, sembrando troppo poco nascere uomo dagli uomini, volle spingersi fino al punto di morire quale uomo e proprio per mano di quegli uomini che aveva creato lui stesso.
Gran cosa è ciò che ci viene promesso dal Signore per il futuro, ma è molto più grande quello che celebriamo ricordando quanto è già stato compiuto per noi. Dove erano e che cosa erano gli uomini, quando Cristo morì per i peccatori? Come si può dubitare che egli darà ai suoi fedeli la sua vita, quando per essi, egli non ha esitato a dare anche la sua morte? Perché gli uomini stentano a credere che un giorno vivranno con Dio, quando già si è verificato un fatto molto più incredibile, quello di un Dio morto per gli uomini?
Chi è infatti Cristo? E' colui del quale si dice: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»? (Gv 1, 1). Ebbene questo Verbo di Dio «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Egli non aveva nulla in se stesso per cui potesse morire per noi, se non avesse preso da noi una carne mortale. In tal modo egli immortale poté morire, volendo dare la vita per i mortali. Donde lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita. Dunque non vergogna, ma fiducia sconfinata e vanto immenso nella morte del Cristo.

Confessiamo perciò, o fratelli, senza timore, anzi proclamiamo che Cristo fu crocifisso per noi. Diciamolo, non già con timore, ma con gioia, non con rossore, ma con fierezza.
L'apostolo Paolo lo comprese bene e lo fece valere come titolo di gloria: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6, 14).

domenica delle palme - la Settimana Santa

Domenica delle Palme - anno C (colore ROSSO)

letture:

Is 50,4-7 Sal 21 Fil 2,6-11
Lc 22,14-23,56: La passione del Signore.


"Quando sarò innalzato da terra attirerò a me ogni creatura"

Dai «Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo


Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza.
Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E' disceso dal cielo, per farci salire con sé lassù «al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare» (Ef 1, 21). Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella spettacolarità, «Non contenderà», dice, «né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce» (Mt 12, 19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà.
Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell'ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.


OMELIA di don Marco Pedron

La liturgia di oggi ci presenta la storia della passione di Gesù secondo l'evangelista Lc.

Ogni evangelista ci mostra un volto diverso di Gesù. E' lo stesso racconto, ma ognuno ne sottolinea un versante, un punto di vista, un'immagine di Gesù. Questo ci ricorda che i racconti della passione, più che verità storiche, sono esperienze, racconti con cui chi ha scritto voleva dirci chi era Gesù per lui.

Per Mc Gesù è l'abbandonato. Tutti lo abbandonano, ma proprio tutti.
I discepoli dal monte degli Ulivi in poi lo abbandonano: mentre Gesù prega si addormentano per ben tre volte (14,32-42); Pietro impreca e nega di conoscerlo (15,66-72), Giuda addirittura lo tradisce (14,43-46).
Tutti fuggono: uno perfino lascia lì la veste pur di allontanarsi da Gesù (14,52). Romani e Giudei sono cinici: lo lasciano appeso alla croce sei ore (15,25.33) e durante tutto questo periodo lo prendono in giro e lo deridono (15,29-32). Perfino quando Gesù muore: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (15,34) lo deridono (15,36). Eppure il velo del tempio si squarcia e il centurione afferma: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio" (15,39). Sono due segni chiari che attestano che, nonostante l'abbandono in cui Gesù è lasciato, Gesù non è un falso profeta.
La passione di Mc mi aiuta quando mi sento solo, quando tutti mi sono contro, quando io stesso credo di aver sbagliato tutto o di essere io stesso sbagliato.
Guardo Gesù e lo vedo disperato: perfino i suoi amici più cari, quelli più intimi, quelli con i quali aveva condiviso le gioie e le fatiche, quelli che avevano detto: "Noi, non ti abbandoneremo mai; noi ci saremo sempre per te; su di noi puoi contare", perfino quelli adesso se ne sono andati.
Ma ciò che è più drammatico è che perfino il suo Dio non parla, è in silenzio, tace. Forse anche lui lo ha abbandonato? Forse Gesù ha davvero sbagliato tutto?
In certi momenti della vita ci capiterà di credere di aver sbagliato tutto. Ci capiterà di aver voglia di farla finita, di toglierci di mezzo; ci capiterà di sentirci soli, abbandonati e traditi. Ci capiterà di essere additati, ridicolizzati, presi in giro, beffeggiati e umiliati.
Eppure Gesù non si sbagliò. Guardando a Lui, che credette in ciò che aveva dentro al di là di tutti i venti contrari, voglio credere in me e in ciò che ho dentro. Guardando a Lui vado avanti.
Quando leggo il vangelo di Mc osservo cosa può produrre la paura nelle persone: ti fa abbandonare, tradire, negare chi ami. Nessuno si schierò con Gesù; nessuno prese le sue parti, nessuno si espose. Tutti ritennero più opportuno rimanerne fuori, non impicciarsi, non cercarsi rogne. Magari lo amavano; magari lo sentivano veramente come la loro vita, ma la paura li portò a negare i loro sentimenti d'amore.

Mt, che in parte ricalca Mc, si pone una grande domanda: chi è il colpevole della morte di Gesù?
Per Mt tutti contribuiscono a loro modo alla morte del Signore. Tutti ne hanno una parte: chi direttamente, chi indirettamente; chi agendo chi non agendo.
Giuda? Giuda s'impicca perché si rende conto di essere stato un burattino in mano ai sommi sacerdoti (27,3-10).
Giuda è nient'altro che una piccola pedina di uno scacchiere molto più grande. E' un fantoccio che per denaro, per opportunità, vende il Signore e tutto sommato se stesso. Poi schiacciato dal senso di colpa, non regge e si uccide.
Giuda sono tutti quegli adulti che vendono ciò che hanno di più bello alla causa del lavoro, del denaro e dei soldi. Lavorano sempre, fanno orari impossibili, perché "otterranno". Con i loro soldi poi comprano regali ai figli (senso di colpa!) e fanno le vacanze in posti speciali, perché loro se lo possono permettere! Ma non si accorgono che stanno vendendo l'anima; non si accorgono che mettono prima dello spirito e dell'animo sempre qualcos'altro. Così un giorno si svegliano e si accorgono di essere vuoti, insoddisfatti, senza niente. Ma sono troppo deboli, troppo senza personalità per cambiare vita. Così si lasciano andare alla deriva, lasciano che il tempo passi finché un giorno la morte li coglierà (ma tanto sono già morti!).
Pietro? Pietro è l'uomo del grande entusiasmo (26,35): "Io non ti rinnegherò mai". Pietro fa grandi proclami, ma poi si sciolgono come neve al sole e per ben tre volte tradirà il suo maestro e amico (26,69-75).
Pietro sono tutti coloro che non si conoscono, ma che credono di spaccare il mondo. Allora fanno grandi proclami, allora si augurano amore eterno, allora si giurano che saranno sempre fedeli e lo credono per davvero. Ma c'è tanta innocenza o troppa presunzione o semplicemente ignoranza: non si conoscono. Non conosco le esigenze della fedeltà.
Tutti coloro che si sposano si giurano amore eterno l'un l'altro. Ma poi… Tutti coloro che fanno la Cresima dicono che Gesù sarà il centro della loro vita. Ma poi… Quanti dopo un incontro, un ritiro, un corso, dicono che cambieranno la loro vita. Ma poi… Quanti promettono che cambieranno, che non lo faranno più, che smetteranno, che saranno diversi. Ma poi…
Si diceva che il grande maestro orientale Li Chin avesse centomila o forse centocinquantamila monaci. Quando, intervistato, gli fu chiesto il numero esatto lui disse: "Quattro, forse cinque!".
Pilato? Pilato se ne lava le mani e con questo gesto crede di tirarsi fuori, di essere esente da responsabilità (27,11-26). La sua stessa moglie lo aveva pregato di non avere a che fare con quell'uomo (27,19).
Pilato sono tutti quelli che dicono: "Io non c'entro", e si credono a posto, si sentono tranquilli.
Se c'è un problema in classe, se non riguarda mio figlio, me ne lavo le mani. Se c'è un problema in parrocchia o nel mio condominio, ma non mi riguarda, meglio lavarsene la mani. Se c'è chi soffre cosa c'entro io? Che ci pensino quelli delegati e preposti a questo!
Davanti alla porta del Paradiso tutti erano in fila per entrare. Si avvicinarono alle porte un gruppo di amici dello stesso paese. Costoro avevano abusato di una ragazza. "Ma come credete di entrare qui dentro con quello che avete fatto? Fuori, qui non c'è spazio per voi!" tuonò S. Pietro. E, infatti nessuno di loro entrò. Subito dopo si presentò un uomo sempre di quello stesso paese. Era sicuro di entrare. Lui infatti non c'entrava con ciò che era successo; lui aveva visto da lontano e se ne era stato zitto per non correre rischi. "Ma come pensi di entrare?", tuonò S. Pietro. "Ma io non ho fatto niente!", rispose l'uomo. "Appunto! Perché non sei intervenuto? Fuori!".
E la folla? La folla è "il popolo bue" che si lascia condizionare dall'ultima moda e tendenza (27,20-23).
I sacerdoti e gli anziani la persuadono ad urlare: "Barabba" (27,20-23). E così quando Pilato chiede: "Chi dei due volete che vi rilasci?", la folla in maniera imbecille e inconsapevole urla: "Barabba!".
La folla rappresenta tutte le persone che si lasciano condizionare, influenzare. Sono tutti quelli che non hanno un pensiero proprio, che vivono di frasi fatte, preconfezionate o di quello che si sente dire in giro. Sono quelli che non riescono a sostenere una posizione o un'idea. Sono tutte quelle persone che credono al politico di turno: "Meno tasse per tutti; un milione di posti di lavoro; più occupazione; più benessere; più economia e salari più alti, ecc". Sono tutte quelle persone che credono ingenuamente che tutto il mondo sia Amici, il Grande Fratello, ecc. Sono tutte quelle persone che corrono dietro all'ultima moda o all'ultimo prodotto.
La folla non ha personalità: vive solo come insieme, ma non come singolo. Nessuno di loro è il diretto responsabile della morte di Gesù, eppure proprio loro lo hanno condannato a morte. Mt attraverso i suoi personaggi dice: "Siete tutti colpevoli, direttamente o no, perché tutti per paura o per interesse l'avete tradito e non avete preso le sue parti".

Lc mostra invece Gesù come colui che perdona tutti.
Lc edulcora i vari personaggi: i discepoli sono rimasti fedeli a Gesù nelle prove (22,28); nel Getsemani si addormentano solo una volta e non tre (22,39-46) ed è un sonno di tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni come negli altri vangeli (22,66-70; Mt 26,60-62); Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché è innocente (23,13-25); il popolo è addolorato per ciò che succede (23,27) e perfino uno dei due ladroni è buono (23,39-43).
In Lc Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l'orecchio del servo durante l'arresto (22,50-51), si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario (23,28-31), perdona i suoi crocefissori (23,34) e promette il paradiso al ladrone pentito (23,43).
Gesù in Lc è colui che capisce i suoi nemici: fanno così perché vivono nel buio e nelle tenebre, altrimenti non potrebbero agire così.
Questo vale sempre: la gente è cattiva non perché sia cattiva, ma perché dentro è arrabbiata; la gente è nervosa, "scattosa", suscettibile, perché dentro è inquieta e non riesce a dar voce ai turbamenti interni; la gente è giudicante perché non conosce la misericordia con sé, non conosce la tenerezza, non conosce l'amore; la gente disprezza gli altri e umilia perché non sa andare dentro il cuore degli uomini.
Gesù li perdona non perché sia giusto ciò che fanno. Gesù li perdona perché sono ciechi, non ci vedono, scambiano il male per il bene e il bene per il male; credono di essere religiosi e invece sono atei; credono di rendere omaggio a Dio e uccidono suo Figlio; credono nelle regole perché non hanno coscienza; credono di sapere e vivono nell'ignoranza totale.
Quanta gente vive così! Credono di essere liberi e, invece, sono così condizionati che neppure se ne accorgono. Credono di essere i padroni della loro vita e invece sono seduti su di un treno. Dicono: "Io faccio la mia vita", e non si accorgono che è il treno che li porta. Credono di conoscersi, ma non sanno dire cosa sono; credono di conoscere Dio perché hanno letto qualche libro o visto qualche documentario o trasmissione, per cui basta un libro di Dan Brown per metterli in confusione. Dio li perdonerà un giorno. Ma nessuno si giustifichi perché l'ignoranza (soprattutto quella "vestita" da sapere) uccide, distrugge, umilia e compie le peggiori atrocità.

Per Gv, invece, Gesù è l'uomo consapevole che va incontro volontariamente al suo destino. Anche se viene giustiziato in realtà è Lui il vero re.
E' sovrano di se stesso e lancia una sfida: "Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie" (10,17-18).
I soldati romani e le guardie del tempio che vanno ad arrestare Gesù cadono a terra tramortiti quando Gesù dice la frase: "Sono io" (18,6). Nel Getsemani Gesù non prega di essere liberato dall'ora della prova e della morte, come negli altri vangeli, perché quell'ora costituisce lo scopo di tutta la sua vita (12,27). Gesù è così sicuro di sé che il sommo sacerdote si sente offeso (18,22). Pilato ha paura di fronte al Figlio di Dio che gli dice: "Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse dato dall'alto" (19.8.11). Gv non parla di Simone di Cirene: è Gesù stesso che porta la propria croce (19,17). La sua regalità è confermata in tre lingue (19,20). Gesù non è solo, perché con lui, ai piedi della croce, c'è sua madre e il discepolo che egli amava (19,25-27). Gesù non grida: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato", perché il Padre è sempre con lui (16,32); le sue ultime parole esprimono, invece, una decisione solenne: "Tutto è compiuto" (19,30). Perfino la sua morte è fonte di vita perché da lui sgorga acqua viva (7,38-39). La sua sepoltura non è improvvisata, come negli altri vangeli; grazie a Nicodemo, il corpo è cosparso di cento libbre di mirra e aloe, come si conviene ad un re (19,38-42).
Il Gesù di Gv è l'uomo che è pienamente consapevole di ciò che succede. Per questo è il vero re. E' il vero re perché è lui che domina la scena, è lui che "vuole" la sua morte. Non che Gesù voglia morire, ma non si vuole sottrarre alla fedeltà di ciò che crede e di ciò che sente. Per questo va fino in fondo, con grande dignità e regalità.
Il Gesù di Gv smaschera i falsi re di questo mondo: le veline, i politici, i calciatori, i potenti, gli uomini di successo. Come Pilato e i sommi sacerdoti, credono di gestire e di dominare il mondo. Si sentono forti e chissà chi. Ma la vera regalità non è mai legata a ciò che fai o a ciò che hai; la vera regalità è legata alla persona che sei.
Regalità è Gino Strada, Alex Zanotelli e tanti altri che lottano per la verità e che hanno il coraggio di schierarsi e di mettersi in prima linea. Regalità è lottare per ciò che si crede e rimanere fedeli a ciò che si dice di credere. Regalità è andare fino in fondo e pagare di persona.

Perché quattro storie della passione? Non c'è stata un'unica passione?
Ciascuno ha visto con i propri occhi quanto accaduto e tutto questo ha parlato al cuore di ognuno in maniera diversa.
Anche quest'anno mi accosto alla lettura della passione: non sono come l'anno scorso, né sarò così l'anno prossimo. Quest'anno mi parlerà in maniera diversa, quest'anno mi identificherò più in un personaggio che non in un altro; quest'anno emergerà più forte un sentimento che non un altro.
In silenzio, nel silenzio del mio cuore leggo e mi ascolto.
In silenzio, nel silenzio di chi sa di trovarsi di fronte alla vicenda del Figlio di Dio, ma anche alla vicenda di ogni uomo, lascio che queste parole mi entrino nell'anima.
In silenzio, nel silenzio del mio cuore leggo questa vicenda e osservo dove sono io.


Pensiero della Settimana
Passione è intensità, esserci dentro e non sottrarsi.
Vivo intensamente il giovedì santo: l'amore, il dono, la condivisione.
Vivo intensamente il venerdì santo: il dolore, l'abbandono, la ferita.
Vivo intensamente il sabato santo: il rialzarsi, la luce, la forza.
In ogni cosa ci sarò dentro e tutte le cose saranno dentro di me.